Oración , Preghiera , Priére , Prayer , Gebet , Oratio, Oração de Jesus

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CATECISMO DA IGREJA CATÓLICA:
2666. Mas o nome que tudo encerra é o que o Filho de Deus recebe na sua encarnação: JESUS. O nome divino é indizível para lábios humanos mas, ao assumir a nossa humanidade, o Verbo de Deus comunica-no-lo e nós podemos invocá-lo: «Jesus», « YHWH salva» . O nome de Jesus contém tudo: Deus e o homem e toda a economia da criação e da salvação. Rezar «Jesus» é invocá-Lo, chamá-Lo a nós. O seu nome é o único que contém a presença que significa. Jesus é o Ressuscitado, e todo aquele que invocar o seu nome, acolhe o Filho de Deus que o amou e por ele Se entregou.
2667. Esta invocação de fé tão simples foi desenvolvida na tradição da oração sob as mais variadas formas, tanto no Oriente como no Ocidente. A formulação mais habitual, transmitida pelos espirituais do Sinai, da Síria e de Athos, é a invocação: «Jesus, Cristo, Filho de Deus, Senhor, tende piedade de nós, pecadores!». Ela conjuga o hino cristológico de Fl 2, 6-11 com a invocação do publicano e dos mendigos da luz (14). Por ela, o coração sintoniza com a miséria dos homens e com a misericórdia do seu Salvador.
2668. A invocação do santo Nome de Jesus é o caminho mais simples da oração contínua. Muitas vezes repetida por um coração humildemente atento, não se dispersa num «mar de palavras», mas «guarda a Palavra e produz fruto pela constância». E é possível «em todo o tempo», porque não constitui uma ocupação a par de outra, mas é a ocupação única, a de amar a Deus, que anima e transfigura toda a acção em Cristo Jesus.

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quinta-feira, 29 de agosto de 2013

Chiara Lubich : alla preghiera - un punto importante - occorre dare un posto privilegiato

Centro Chiara Lubich Movimento dei Focolari




www.centrochiaralubich.org




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(Trascrizione)

Rocca di Papa, 28 settembre 1998


Tratti tipici della preghiera

del Movimento dei Focolari



(…) La preghiera, che è rapporto con Dio, è costitutiva dell'uomo, proprio del suo essere uomo.

Creato, infatti, da Dio a sua immagine e somiglianza, egli ha la possibilità di un rapporto con lui da tu a

Tu.

Che sia congeniale all'uomo pregare, lo si può capire venendo a conoscere i nostri fratelli di

altre religioni. Fra essi, si scoprono testi di preghiera di una meravigliosa bellezza, che testimoniano

un'azione segreta, ma efficace, di Dio che sempre spinge l'uomo a pregare. L'uomo è veramente tale se

prega.

E così facciamo anche noi cristiani. Fratelli di Gesù per la grazia, troviamo in lui il modello per

poter rapportarci con il Padre. Gesù, infatti, non predicava soltanto, non faceva unicamente miracoli, non

chiamava solo discepoli a seguirlo; s'immergeva anche nella preghiera. Anzi, come Gesù era sempre in

comunione col Padre suo, sempre di fronte a lui, così dovrebbe essere dei suoi seguaci.

Come è noto, i cristiani pregano in maniere varie: i benedettini così, i francescani colà. Si

possono, quindi, evidenziare i tratti tipici e salienti della preghiera di chi è investito del carisma dell'unità.

Essi emergono - questi principi - chiaramente se si confronta la nostra preghiera con quella che

praticavano i cristiani, anche i meglio preparati, almeno nei nostri paesi, quando il Movimento ebbe

inizio. Ricordo che si diceva come in essa, nella preghiera, "devono lavorare la mente, la volontà e il

cuore. Con la mente occorreva riflettere sulle parole pronunciate; con la volontà bisognava sforzarsi di

fare propositi su di esse; con il cuore amare quanto si prometteva, in modo da poterlo eseguire."

Ed erano senz'altro ottimi consigli.

Tuttavia, nel Movimento, la preghiera è stata subito un'altra cosa. Si è sottolineato, ad esempio,

dall'inizio, fin dai primi mesi, il dovere di "pregare sempre" richiesto da Gesù. Ma come fare a pregare

sempre? Era chiaro che ciò non poteva verificarsi moltiplicando gli atti di preghiera... Si poteva pregare

sempre essendo Gesù. Gesù, infatti, prega sempre. Se in qualsiasi nostra azione non fossimo stati noi a

vivere, ma Cristo in noi, attraverso l'amore, la giornata nostra sarebbe stata una preghiera continua. E ciò

era possibile se avessimo impostato la vita sull'amore, essendo una viva espressione della parola "amore",

sintesi di tutta la Legge e i Profeti.

Un altro modo di "pregare sempre" - lo si praticò più tardi - è stato quello di offrire azione per

azione a Dio, durante la giornata, con brevi espressioni d'amore, come: "Per te; per te, Gesù". Tutto il

nostro agire si trasformava così in un'azione sacra. E si era e siamo convinti che offrendo in tal modo, ad

esempio, il lavoro a Dio e facendolo bene, si coopera con lui alla creazione del mondo, si è concreatori.

E' questa una preghiera molto sentita ai giorni nostri, in cui si vede il mondo e tutto il cosmo in

evoluzione e si ricorda all'uomo il suo dovere di "soggiogare la terra."

E ancora, lavorando per un'opera di Dio, e quindi per la Chiesa, si partecipa con Cristo alla

redenzione del mondo.

Nel Movimento si pensa che alla preghiera - un punto importante - occorre dare un posto

privilegiato. La grande attività, che ha caratterizzato da sempre il Movimento, avrebbe potuto

compromettere la preghiera, renderla imperfetta e non degna d'essere offerta a Dio. Ma ecco cosa si

scrisse in un commento alla Parola: "Qual vantaggio avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi

perderà la sua anima?"

"Per noi, membri dell'Opera di Maria - è scritto -, tale Parola può avere anche questo

significato: che importa darsi tanto da fare per conquistare molte persone alla causa di Dio, quando la

nostra anima rimane piccola e imperfetta perché non trova un'ora veramente tranquilla per quel suo tipico

nutrimento che è la preghiera? O quando quelle preghiere, che sono per noi un sacrosanto dovere, sono


Centro Chiara Lubich Movimento dei Focolari




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fatte in mezzo a tante distrazioni, sono dette superficialmente ed in fretta, o vengono abbreviate?"

Le prime focolarine avevano coniato un detto: "pregare come angeli, lavorare come facchini".

E, a proposito dei difetti che potrebbe avere la nostra preghiera, scrivevo ancora:

"Poter stare in comunione con l'Onnipotente e farlo così poco, così di fretta e spesso

svogliatamente. Alla fine della vita ci pentiremo d'aver dato tanto poco tempo alla preghiera."

Un altro ostacolo alla preghiera potrebbe essere uno stato di aridità spirituale. Ma in chi è

impegnato a vivere la spiritualità dell'unità si nota una certa facilità nel superare l'aridità nella preghiera.

Essa non è che un volto, un aspetto di Gesù abbandonato, un suo volto, e, come si sa passare dalla croce

alla risurrezione in altri casi, così qui.

Noi vediamo assai provvidenziale il fatto che si possa, in genere, vincere l'aridità; in mezzo al

mondo, come la maggior parte di noi siamo, è bene che certe prove spirituali non si protraggano.

Abbiamo altre tentazioni da superare.

Si ritiene importante ancora per la preghiera la condizione fisica. Infatti, cerchiamo di non

stancarci troppo prima del suo momento, per non arrivare davanti a Dio privi di forze, di capacità di

concentrazione, per non dare a lui i momenti meno felici della nostra giornata.

Si è convinti ancora - sempre attraverso un'analisi di questi scritti, dove Dio ci educava -, si è

convinti ancora che la preghiera vada preparata. Dicono gli esperti che essa ha bisogno di una

preparazione remota e una prossima. E' preparazione remota il mantenersi col cuore distaccati da tutto. E

a questo, mi sembra, siamo tutti più o meno impegnati. La nostra vita, infatti, è un continuo amare Gesù

crocifisso e abbandonato. Tanto spesso parliamo di tagli, di "potature" e soprattutto di quel distacco che

porta con sé l'essere proiettati nell'amore verso i fratelli, il vivere gli altri e non noi stessi.

Sì, questa preparazione speriamo ci sia. Almeno, è la nostra quotidiana tensione: "Sei tu,

Signore, l'unico mio bene", che taglia tutto il resto.

Poi c'è una preparazione prossima, essa consiste in un momento di raccoglimento prima di

iniziare. Cioè non partire subito, un momento ci si raccoglie.

Si è avvertito poi, e si avverte, tutta l'imprescindibilità della preghiera, il suo valore.

"In Cielo - scrivevo nell'89 -, dove speriamo di andare, la vita non sarà tanto apostolato o altro,

quanto lode, adorazione, ringraziamento a Dio, Trinità Santissima. Dobbiamo imparare fin da adesso a

vivere come si vivrà lassù."

Ma c'è nel Movimento una preghiera che - con le infinite e divine ricchezze che contiene - è

tutta racchiusa in una parola, in una sola parola, che Gesù pronunciava e ci ha insegnato, che lo Spirito

mette sulle nostre labbra. Gesù pregava, pregava il Padre suo. Per Lui il Padre era "Abbà" e cioè il babbo,

il papà, cui si rivolgeva con accenti di infinita confidenza e di sterminato amore. Lo pregava essendo nel

seno della Trinità, dove egli è la seconda divina Persona. Ma, giacché era venuto in terra per amore

nostro, non gli è bastato essere lui in questa situazione privilegiata di preghiera. Morendo per noi,

redimendoci, ci ha fatti figli di Dio, come lui, fratelli suoi, e ha dato anche a noi, tramite lo Spirito, la

possibilità d'essere introdotti nel seno della Trinità, in lui, assieme a lui, per mezzo di lui. Cosicché anche

a noi è stata resa possibile quella divina invocazione: "Abbà, Padre!" - "Papà, babbo mio! nostro" - con

tutto ciò che essa comporta: totale abbandono al suo amore, certezza della sua protezione, sicurezza,

consolazioni divine, forza, ardore che nasce in cuore a chi è certo di essere amato...

E' questa la tipica preghiera cristiana, una preghiera straordinaria. Non si riscontra in altri

luoghi, né in altre religioni. Al più, se si crede in una divinità, la si venera, la si adora, la si supplica

stando, per così dire, all'esterno di essa. Qui no, qui si entra nel Cuore di Dio.

Naturalmente, si può dire "Abbà, Padre!", con tutto il significato che questa parola comporta,

solo se lo Spirito Santo la pronuncia in noi. E, perché ciò sia, occorre anche qui - come richiede il carisma

dell'unità - essere Gesù, null'altro che Gesù. (…)

Chiara Lubich

fonte

domingo, 25 de agosto de 2013

Come praticare la presenza di Dio nella vita di tutti i giorni

"Comment pratiquer la Présence

de Dieu dans la Vie de tous les jours"

Come praticare la presenza di Dio nella vita di tutti i giorni

Traduzione di Luciana Scalabrini


Una delle discipline spirituali più facili e più efficaci è quella di condurre la presenza di Dio nel cuore di ogni attività della nostra vita di tutti i giorni... E’ la regola che si addice di più a una vita santa. Sappiamo tutti come Frate Lorenzo della Resurrezione, che era una persona molto modesta, sia diventato un’ anima illuminata, un santo, attraverso la pratica della presenza di Dio.

L’impegno principale di questa disciplina è coltivare l’abitudine di riempire la propria anima con una presenza divina permanente e senza cessare di crescere. Come si può fare questo ? Ascoltiamo Frate Lorenzo « Se vogliamo entrare, in contatto con Dio in un modo umile, familiare e innamorato, dobbiamo coltivare la Sua Presenza ».

E’una specie di Bakty Yoga.

Non importa quale sia il Dio personale, quale sia la concezione del fedele, non importa in quale parte del mondo, ma si può praticare con grande profitto. La sua caratteristica principale è la sua semplicità e la sua assoluta facilità. Ecco fratello Lorenzo: « Gli uomini inventano mezzi e metodi per arrivare ad amare Dio. Imparano regole e formule per ricordarsi questo amore e si complicano la vita per introdursi nella coscienza della presenza di Dio. Eppure può essere così semplice… Non occorre né arte né scienza. Andiamo verso di Lui come siamo, senza pretendere, con sincerità ».

La vita di Frate Lorenzo ci dà una grande speranza e una grande ispirazione spirituale. E’ l’esempio evidente d’un principiante che, senza doni particolari, può elevarsi dalla posizione più umile alla più alta illuminazione spirituale

Ricevette la rivelazione di Dio ad appena 18 anni. Gli è capitato proprio per caso, vedendo qualcosa di molto consueto. Un giorno, in pieno inverno, vide in un prato un albero senza foglie. Appena guardò il tronco e i rami nei quali la vita si era addormentata, fece « l’esperienza della visione dell’albero come fosse d’estate, cioè ricoperto di migliaia di foglie e di fiori e poi di frutti ». Con questa visione sentì il senso della potenza divina e della sua generosità, cosa che non l’ha mai più lasciato.

Anni più tardi disse che quell’albero nudo gli aveva improvvisamente rivelato, in un lampo l’esistenza di Dio. E gli ha acceso nel cuore un amore cosi’ grande e totale che non ebbe più bisogno di crescere in tutta la sua vita. Quando fu cosi’ convinto « dell’esistenza di Dio, della sua saggezza, del suo potere e della sua bontà » non ebbe altra preoccupazione che rifiutare rigorosamente ogni altro pensiero perché ogni azione fosse fatta per amore di Dio.

Sappiamo che ebbe delle difficoltà per imparare a rifiutare dubbi e desideri. Ma, malgrado dubbi ed esitazioni, prove e tribolazioni, si è attenuto a quella sola idea che esprimeva così: « Sono entrato nella vita spirituale solo per amore di Dio e provo ad agire in accordo alla sua volontà; qualsiasi cosa capiti, che sia perduto o salvato, continuerò sulla strada del suo amore e della sua volontà. Questo, almeno, potrà essere messo a mio credito: fino alla morte tutti i miei sforzi saranno volti a servire ed amare Dio. »

Questa disciplina spirituale praticata da frate Lorenzo, ci insegna a fissare la nostra mente su Dio e a fare tutto il nostro lavoro per Lui con amore e devozione. Questo richiede di fissare la nostra mente nella presenza benedetta del Signore e di ricondurla all’ordine quando s’allontana da Lui; sicuramente è un esercizio faticoso, ma dobbiamo persistere a dispetto di tutte le difficoltà.

Dobbiamo anche portare direttamente a Dio ogni nostra negligenza e non avere a che fare se non con Lui. Spesso abbiamo l’impressione che la vita sia solo una lotta. Ma quando la pace comincerà a nascere, essa s'installerà profondamente. La pace interiore che abbonda in ogni cosa ci fa avanzare verso Dio, semplicemente, umilmente, nella fede e nell’amore. Era proprio il caso di frate Lorenzo. Poteva sentire la presenza di Dio dappertutto, in cucina, in mezzo a tazze e casseruole, come nel silenzio della cappella.

Uno dei passaggi più memorabili ci mostra il livello di eccellenza spirituale a cui poteva aspirare facendo il lavoro che gli era stato assegnato in cucina. Ha detto : « Per me non c’è differenza tra il tempo del lavoro e quello della preghiera, tra il rumore e la confusione della cucina, tra gli ordini di ogni sorta gridati da molte persone; resto in Dio con una serenità tanto grande, come se fossi in ginocchio davanti al Santo Sacramento... Per il suo servizio mescolo la pasta del dolce nel recipiente davanti a me. Quando questo servizio è finito m’inginocchio sottomesso davanti a Lui, perché ho potuto fare questo grazie a Lui. Poi mi alzo più felice di un re.

"Raccogliere un filo di paglia per suo amore, mi riempie".

Ecco davvero un potere spirituale superiore che si manifesta con l’impressione spontanea di un movimento costante e incredibile verso Dio.

I metodi che frate Lorenzo usava per le sue pratiche devozionali erano cosi’ personali e originali che ci si lamentò contro di lui presso i suoi superiori. Le accuse vertevano sulla sua mancanza d’ardore nelle preghiere, sulla sua indipendenza e le sue bizzarrie. Fu aperta un’inchiesta. Frate Lorenzo spiegò come compiva i suoi doveri religiosi o il suo lavoro di cucina senza perdere la comunicazione con Lui e come vivesse continuamente nella Sua presenza. Più di questa spiegazione fu la sua stessa espressione, che rifletteva una dolcezza e una calma interiore, a convincere.

Ecco una lettera piena di consolazione e d’ispirazione che ha scritto, quando era ammalata, alla madre superiora di un convento: « Elevate il vostro cuore verso Lui, accetterà il più piccolo dei vostri pensieri migliori su di Lui. Non avete bisogno di gridare. Lui è più vicino a noi di come immaginiamo…Felici quelli che soffrono con Lui… Le persone credono che la malattia non sia che sorgente di sofferenza, di dolore e di dispiacere, non pensano mai che sia un dono di Dio. Quelli che possono considerarlo come una parte della sua grazia, che viene da Lui e comprendere che significa la loro salvezza, troveranno in essa dolcezza e salvezza. »

Verso la fine della vita, sembra che abbia avuto una visione luminosa: « Tra un momento, andrò da Lui; che conforto ho nella fede! La mia visione è cosi’ chiara che non posso dire « credo, ma vedo ».

Pochi giorni prima di morire, disse : « Non so cosa Dio farà di me, ma sono sempre felice. Il mondo intero conosce la sofferenza e io, che non ho nessun merito, sono pieno di una tale gioia che posso a stento contenerla ».

E dolcemente e senza dolore fece il grande passo verso una nuova fase di avvicinamento a Dio.

Dall’esperienza di frate Lorenzo della Resurrezione, impariamo questo: non esiste al mondo un modo di vivere più bello e gratificante di quello di praticare la presenza di Dio in ogni momento e luogo. Per avviarsi correttamente a questa disciplina, bisogna vuotare il cuore di ciò che contiene e permettere a Dio solo di possederlo. E perché Lui lo possieda totalmente, dobbiamo accettare di lasciarlo libero di fare come Gli piace e permettergli di usarlo come vuole.

Dobbiamo rinunciare a ciò che ci piace che non ci condurrebbe a Dio.

Poi non dobbiamo che riconoscere la Sua presenza in noi, parlargli senza posa delle nostre intenzioni, implorare la sua assistenza per sapere come meglio adempiere ai nostri doveri. Offriamogli ogni azione prima di cominciarla e ringraziamolo per il Suo aiuto quando abbiamo finito.

Frate Lorenzo pensava che il modo migliore di andare verso Dio era di fare il suo lavoro, non per piacere agli uomini, ma solo per piacere a Dio.

Insegnava anche che separare il tempo della preghiera dagli altri momenti della vita è un errore. L’azione per Dio ha la sua importanza, come la preghiera ha la sua.

Infine, ed è ciò che conta di più, bisogna avere una fiducia illimitata in Dio, abbandonarci completamente tra le sue mani ed essere convinti che non ci verrà mai meno.

Ecco, riassumendo, quello che frate Lorenzo considerava come fatti importanti della vita spirituale

E per quelli che desideravano praticare la presenza di Dio, suggeriva quattro discipline principali.

La prima è una grande purezza di vita. Bisogna essere attenti a non dire o fare o pensare cose che dispiacciano a Dio. Se capita, immediatamente pentirsi sinceramente e umilmente chiedere perdono.

La seconda è la fedeltà nella pratica della Sua presenza. Bisogna tenere gli occhi dell’anima sempre fissi su Dio, con calma, fede e umiltà, con un amore che non lascia posto al dubbio o all’inquietudine.

La terza consiste nel pensare a Dio in ogni lavoro, anche ordinario. Una preghiera deve essere offerta all’inizio, poi bisogna ricordarsi di Lui durante tutto lo svolgimento del lavoro e, quando è terminato, indirizzargli un ringraziamento.

Infine la quarta, che è una tappa esoterica personale, è fare in silenzio l’offerta di parole d’amore. In un modo segreto, perché questa conversazione tra il fedele e Dio non ha bisogno di essere conosciuta da nessuno, parole come « Signore, ti appartengo interamente », o « mio Dio, fa che il mio cuore sia tutto tuo », o altre parole, secondo le occasioni. Bisogna fare attenzione che la mente non vada sugli oggetti del mondo, ma resti fissa su Dio.

Se si pratica questa disciplina con costanza, si produrranno meravigliosi effetti sull’anima e ci sarà una profusione di grazia divina. L’anima diverrà illuminata e abitata dalla visione permanente del Dio amante e amato

Ecco la più santa, la più reale e la più ispiratrice di tutte le maniere di praticare la devozione.

La pratica della presenza di Dio è stata da tempi antichissimi un metodo spirituale caldeggiato dalla tradizione indiana.

Ai tempi delle Upanishad la cultura della presenza delle divinità ha toccato il suo apogeo quando la realtà superiore, l’identità dell’anima con lo Sirito Superiore è stata scoperta. Solo quelli che trascendono la coscienza del corpo sono capaci di praticare un tale approccio alla Realtà.; per la gran maggioranza dei ricercatori spirituali, che non possono trascendere la coscienza del corpo, l’apertura alla via spirituale resta un approccio personale a un Dio personale.

Nella Bhagavad Gita l’accento è messo sulla necessità d’un approccio personale a Dio. Sono raccomandati cinque metodi generali :

1 Come concepire Dio? Nel cap.9,v.8,ci dice che deve essere considerato come la finalità, il supporto, il rifugio, l’amico, l’origine, la dissoluzione, il fondamento, la casa dai tesori imperituri.

Riassumendo, Dio dovrebbe essere considerato come il centro da cui dipende la nostra esistenza e a cui l’esistenza è legata.

2 La devozione faccia a faccia e il culto solitario sono prescritti.

3 La consacrazione della vita cioè tutto ciò che è fatto in offerta al Signore. « Tutto ciò che fate, che mangiate, che offrite in sacrificio, che date e che fate sotto forma di disciplina, fatelo come un’offerta al Signore ».

4 Prendete rifugio nel Signore in ogni circostanza (c11,v33). Diventate uno strumento nelle mani del Signore(c18 v62).

5 Abbandonate tutte le formalità della religione e tuffatevi nel Signore con un atto volontario d’abbandono personale. Non rimpiangete nulla, non respingete nulla. Il Signore, è sicuro, vi salverà e vi darà il suo aiuto.(c18,v66)

La pratica della presenza di Dio dovrebbe essere l’idea dominante di tutti gli esercizi devozionali e di tutto ciò che facciamo, ma c’è più di un modo di avvicinarsi a Dio.

Nella via della devozione la cosa più importante è stabilire la nostra relazione con Dio. E’ la relazione più intima, più sacra che l’uomo possa mai avere, ma deve essere necessariamente di una sola forma. Può essere quella della relazione dei genitori coi figli o del figlio col genitore, d’un amico con un amico, d’un servo col padrone, può essere l’atteggiamento sereno d’un saggio per il Signore o quella d’una innamorata verso l’amante.

La forma di relazione scelta è il canale con il quale l’amore è portato a versarsi su Dio e deve essere conservata. Quando il fedele si è stabilito nella forma di relazione che ha scelto per Dio, diventa per lui più facile coltivare la presenza di Dio.

Sri Ramakrishna ha coltivato le 5 attitudini e, con ciascuna, si è ritrovato nella coscienza di Dio e solo di Dio. Ma ,per mantenere una comunione costante con il Divino, la sua preferenza era quella del figlio verso sua madre. Coltivava la presenza di Dio ignorando tutto fuori di sua Madre. All’inizio, nella realtà della sua vita spirituale, non aveva che quello, il sentimento onnipresente e onnipotente di essere il figlio della Madre. Piangeva e piangeva, e insisteva per ottenere la sua visione, tanto che la Madre Divina stessa trovava difficile resistergli. I suoi occhi erano fissi nell’attesa della visione. Non ha dormito per sei lunghi anni. Quando la presenza viva della Madre è infine divenuta permanente in lui, dipendeva da lei per ogni più piccolo dettaglio. Quando aveva dei dubbi le domandava consiglio. E’ diventato come un bambino. Se qualcuno gli procurava dolore, portava la sua ferita alla Madre ed era subito consolato.

Per lui la madre divina Kali era cosi’ reale che le parlava sempre, le domandava il suo parere, ascoltava i suoi consigli, come lo facciamo a casa con i genitori.

Infatti, a un livello più avanzato della via spirituale, la presenza di Dio non è più la pratica d’una idea adottata, è la scoperta del fatto basilare dell’esistenza. Come Frate Lorenzo diceva qualche giorno prima di morire : « Ora, non credo più, io vedo ».Quando si arriva a questo stadio, non si trova più una sola azione che non sia un’adorazione di Dio,che non sia « le cose del Padre », per citare Gesù bambino. Quando voi profondamente sentite che siete abbandonati da Dio, e il vostro cuore è abitato dalla desolazione e dall’aridità, quando la devozione vi sfugge e vedete che le tentazioni vi assalgono, e che Dio non è in nessun posto e vi sentite morire, ebbene proprio in questo momento Dio è li’ presente sotto forma di sofferenza. Cosi’, portate quella sofferenza del vostro cuore fino all’altare e, se lo desiderate, piangete fino a non avere più lacrime. Forse allora scoprirete che Dio non si è allontanato da voi che della distanza alla quale avete scelto di allontanarvi. E perché l’avete allontanato? Non ha dichiarato molte volte che era nel cuore del nostro cuore ? Cosa abbiamo veramente fatto per scoprirlo? Abbiamo davvero rifiutato tutte le impurità sotto le quali era sepolta la sua voce gemente? Allora, come osiamo lamentarci? E tuttavia, se lo vogliamo, si, lamentiamoci! Ma direttamente con Lui; direttamente alle sue orecchie. Cosi’ avremo coltivato la sua presenza anche durante la sua supposta assenza. La sensazione d’agonia della separazione da Dio è cosi’ una forma d’unione con Lui. Perché, in verità, Lui è dappertutto e tutto ciò che esiste è Lui.

Comprendiamo come scorre la vita . Essa vola. Quanto tempo ci è lasciato? Non lo sappiamo. E la vita ci sfida ogni momento. Ma la più grande sfida della vita, è Dio. E noi dobbiamo superare questa sfida con un’altra, che è quella d’includere Dio in ciascuno dei nostri atti quotidiani e di compiere ciascuno d’essi per il Suo amore. Si può fare, molti l’hanno fatto. Non dubitatene!

Diamo a Dio la sensazione che abbiamo coscienza di Lui. Piangiamo vere lacrime per lui. Pratichiamo la sua presenza. Compiamo tutto in sua presenza. E’la sua assenza che è il peggiore dei mali. Credetemi, se moriamo in presenza di Dio, la nostra salvezza è assicurata.

Non è facile imitare Quelli di cui ho evocato il santo nome. Le nostre limitazioni sono tante e le nostre posizioni diverse. Ma è bene ricordarsi che non esistono situazioni dove non c’è Dio .E’ perché è possibile praticare la presenza di Dio:non esiste nessun luogo dove Dio non sia. Alcuni possono averlo dimenticato per un momento..

Ecco qualche consiglio che ciascuno può, deve o dovrebbe seguire per praticare la presenza di Dio. Questa pratica ci riempirà lentamente ma sicuramente di forza, di conforto, di gioia e d’ispirazione :

1 Sentiamo il miracolo dell’esistenza di Dio

2 Se Dio esiste e se noi esistiamo, deve esserci una relazione tra i due. Scopriamo questa relazione e coltiviamola nel modo che ci piace di più.

3 Pensare a Dio è un modo per sviluppare questa relazione. I Vedantici credono a un approccio gioioso con Dio e non ai sospiri e ai pianti. Beninteso, può succedere di piangere ogni tanto. Quando ci vengono le lacrime agli occhi, nemmeno un eroe le può fermare. Allora piangiamo, senza vergogna davanti a Lui. Ma Dio, che ha creato i fiori splendidi, che ha colorato le piume degli uccelli con colori stupendi, non desidera certo essere avvicinato in modo cosi’ oscuro. E’ possibile divertirsi con Dio, benchè certe persone religiose sembrano svenire a questa idea. Grandi mistici hanno giocato e scherzato con Dio.

4 Incrementiamo il nostro incontro con Dio, rendiamolo piacevole. La vita spirituale non deve diventare monotona , noiosa e troppo costrittiva. Per questo dobbiamo pensare a Dio in tutti i modi possibili, con tutte le diversità che possiamo immaginare.

Ascoltiamo cosa dice Ramakrishna :

« Sentite come è melodiosa questa musica ? Uno dei suonatori non produce che un suono monocorde sul suo flauto finchè un altro non crea onde di melodia nei differenti toni e semitoni. E’ quest’ultimo modo che ho scelto. Perché dovrei produrre un suono monocorde, quando ho uno strumento con sette fori ? Voglio suonare ogni sorta di melodia sul mio strumento a sette fori. ». Io sono Lui! ». Perché dire solo « Brhama Brahma? » Voglio chiamare Dio come voglio, Shanta, dasya, sakhya, vatsalya omadhura! Voglio rallegrarmi con Dio! »

In un antico libro sacro dell’India, il Bhagavatam, sono descritti i diversi modi tradizionali di ricordare. Dio:» Sravanam, kirtanam, vinoh, smaranam, padasevanam, archanam,vandanam, vasyam, skyhiam, atmanivedanam». Ascoltare la gloria del Signore,cantare il suo nome, ricordarlo, onorarlo, adorarlo, comunicare con Lui, abbandonarsi a Lui, ecco i diversi modi di ricordare Dio e di praticare la Sua presenza ».

A questi metodi tradizionali, Sri Ramakrishna ha aggiunto per l’uomo moderno cosciente della vita sociale, il grande culto di Jiva-Siva. Per lui, il servizio dei bisognosi è il più grande di tutti i culti. E’ quello dell’uomo considerato come Dio. Swami Vivekananda ha interpretato questo passaggio come il vangelo rivoluzionario del servizio degli altri.

Per praticare la presenza di Dio, dobbiamo esercitare le nostre tre facoltà: l’immaginazione, l’emozione e l’azione.

- « L’immaginazione di oggi diverrà la realizzazione di domani », dice SwamiTuriyananda, uno dei discepoli di Ramakrishna. Cosi’, per cominciare, immaginiamo costantemente che Dio è qui, ora, anche se non possiamo vederlo.

- Riteniamo sicuro che è tutto amore ed è per questo che tutto l’amore è l’amore di Dio. Privare Dio di un poco d’amore, ci causerà solo dolore e sofferenza. Per questo la nostra facoltà d’emozione dovrebbe elevarsi sempre più verso di Lui.

- Tutti agiscono. L’azione è la respirazione stessa della nostra vita. Che ogni azione sia fatta per amor suo e non respireremo né vivremo che per Lui. Non temete di vivere per Dio! Un fucile ha paura delle palle che sono tirate attraverso di lui? Non siamo che strumenti. Perché diventare altro e perdere la gloria d’essere usati da Dio ?

- Infine, non andiamo da nessuna parte da soli .Le persone vanno al parco col loro cane e gli parlano continuamente e sapete anche con quale affetto. E’ possibile andare al parco con Dio e parlargli. Allo stesso modo parliamo con noi stessi. A volte questa abitudine diventa perfino patologica e le persone sono rinchiuse in ospedali. Ma se pensiamo che Dio è sempre con noi, nel nostro cuore e se gli offriamo il nostro cuore, troveremo la consolazione e la pace. Frate Lorenzo diceva :

- « Quando sentite un turbamento interiore, chiamate il Signore che è addormentato in voi. Lui si risveglierà e torneranno in voi onde di pace ».

- Quando dubitiamo o soffriamo, o siamo confusi, chiudiamo la porta, andiamo nel più profondo del cuore e mettiamo il nostro problema davanti al Signore per chiedergli consiglio. Non parlate mai di un problema con nessuno prima di esservi confidati col Signore nel vostro cuore. Sarete sorpresi di dover parlare di un numero esiguo, dopo Sri Ramakrishna diceva. :

- Se portate la Madre Divina nel cuore, sarete incapaci di fare una cattiva azione, anche se vi trovate in un posto cattivo. »

- C’è un’infinità di modi di coltivare una comunione interiore con Dio e di svilupparlo. Un saggio si rivolge cosi: « Quando si pensa a voi in un momento difficile, cancellate la paura. Quando quelli che sono senza problemi si ricordano di voi, accordate loro i vostri favori ». Ora conoscete il più prezioso dei segreti per praticare la presenza di Dio. Quando siete in difficoltà e la tempesta soffia su di voi, gridate verso di Lui. Vi risponderà, non c’è alcun dubbio, vi aiuterà. Ma un lavoro spirituale creativo si realizza quando non abbiamo particolari problemi, pensiamo a Lui, lo chiamiamo e lo supplichiamo con fervore. Questo ci dà una forma di mente che spontaneamente si dirige verso la Realtà. Con questa forma di mente, noi non crederemo più, noi vedremo, come diceva Frate Lorenzo della Resurrezione.

Immagine del tempio e mistica cristiana


Immagine del tempio e mistica cristiana




Le generalizzazioni con le quali si valutano i fenomeni storici, sono sempre imprecise. Se noi dovessimo dire che tutte le chiese cattoliche sono come quella illustrata nella foto a sinistra, evidentemente ci sbaglieremo. Ugualmente, se dovessimo dire che tutte le chiese ortodosse rispecchiano l'ordine e l'armonia di quella illustrata nella foto a destra.

La realtà, spesso, è una commistione di elementi. Ciononostate, a volte è utile fare un discorso tranciante perché aiuta a focalizzare alcuni elementi-base che hanno generalmente orientato gli spiriti.

Il discorso che riporto di seguito dev'essere letto in questo senso, non tanto in modo polemico o rivendicativo di una parte contro un'altra. E' interessante l'accenno tra la mistica vissuta e immagine esteriore del tempio. Quello che conta in quest'analisi è individuare le cause di un fenomeno ed, eventualmente, riequilibrare personalmente certi atteggiamenti religiosi. D'altronde, queste parole aiutano a spiegare perché certe architetture ecclesiastiche moderne sono fin troppo fredde.


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Tanto in Oriente come in Occidente esiste una mistica ecclesiale ufficiale, abbiamo una mistica ortodossa e una mistica cattolica. Ed è appunto la differente struttura dell'esperienza mistica che viene adotta a spiegare della diversità che caratterizza le vie seguite nel corso della storia dall'oriente ortodosso e dall'occidente cattolico.

C'è in effetti una profonda differenza nell'atteggiamento originario con cui ci si pone di fronte a Dio e al Cristo.

Per l'occidente cattolico, Cristo è un oggetto che si trova al di fuori dell'anima dell'uomo, è il termine cui tendono certe nostre aspirazioni e, in quanto tale, viene fatto oggetto d'amore e d'imitazione. E' appunto per questo che l'esperienza religiosa cattolica si caratterizza come una tensione dell'uomo verso l'alto, verso Dio. L'anima cattolica è gotica. La passionalità e la capacità d'infiammarsi si accompagna costantemente in essa con una sensazione di freddezza. L'immagine concreta ed evangelica del Cristo e della sua passione è intimamente vicina all'anima cattolica. L'anima cattolica è appassionatamente innamorata del Cristo e imita la sua passione, fino al punto di ricevere nel proprio corpo le sue stigmate. La mistica cattolica è totalmente legata ai sensi, in essa v'è una sorta di tormento e di languore, e la sua via è quella dell'immaginazione sensibile. L'elemento antropologico naturale raggiunge in essa il suo punto di massima tensione. L'anima cattolica grida: Gesù, Gesù mio, mio diletto, amato mio.

Nel tempio cattolico come nell'anima cattolica del resto, si avverte una sensazione di freddo: è come se Dio stesso non scendesse e non entrasse in questo tempio e in quest'anima. E l'anima allora, nella sua passione e nel suo tormento, vuole essere lei a salire e a raggiungere il proprio oggetto, l'oggetto del proprio amore. La mistica cattolica è romantica, è tutta pervasa da un tormento romantico. La mistica cattolica è una mistica della fame che non conosce la sazietà, sa perfettamente cos'è la passione amorosa ma non conosce il matrimonio. L'atteggiamento cattolico nei confronti di Dio inteso come un oggetto, come il termine di un'aspirazione, è ciò che determina la dinamicità esteriore del cattolicesimo. E l'esperienza cattolica crea una cultura che porta evidentemente impressi i segni di questo amore per Dio e di questo tormento per Lui. Nel cattolicesimo, l'energia si riversa tutta nelle vie dell'azione storica, non resta chiusa nell'interiorità perché Dio non entra nell'interiorità del cuore, e il cuore cerca di raggiungere Dio seguendo le vie del mondo e del suo dinamismo. L'esperienza cattolica genera la bellezza partendo dalla fame spirituale e da una passione religiosa inappagata.

Per l'oriente ortodosso, invece, Cristo è un soggetto, egli si situa all'interno dell'anima umana, e l'anima accoglie Cristo dentro di sé, nelle profondità del suo cuore. Nella mistica ortodossa è impossibile ogni sorta di passione amorosa per Cristo, così come è impossibile l'idea di una sua imitazione. Nell'esperienza ortodossa, più che un tendere a Dio, ci si prostra davanti a Lui. Il tempio ortodosso, come l'anima, del resto, è tutto il contrario del gotico. Nell'ortodossia non c'è né freddo né passione. Nell'ortodossia c'è una sorta di tempore, c'è persino troppo caldo. Per la mistica ortodossa, l'immagine concreta ed evangelica del Cristo non è poi così vicina. La mistica ortodossa non è legata ai sensi e anzi ritiene la sensibilità un "inganno", arrivando fino a negare del tutto l'immaginazione, che viene considerata una via nettamente sbagliata. Nell'ortodossia non si può dire: "Gesù mio, mio diletto, amato mio. Cristo discende nel tempio ortodosso e nell'anima ortodossa e la riscalda. E nella mistica ortodossa non v'è alcuna passione tormentosa. L'ortodossia non è romantica, è realista e sobria. La sobreità e la temperanza è appunto la via mistica dell'ortodossia. L'ortodossia è sazia, spiritualmente appagata. L'esperienza mistica ortodossa è quella del matrimonio e non quella della passione amorosa. L'atteggiamento ortodosso di fronte a Dio è quello di chi si pone davanti ad un soggetto che viene accolto nelle profondità del proprio cuore; la spiritualità interiore di quest'atteggiamento non produce un dinamismo verso l'esterno, è totalmente rivolta ad una comunione interiore con Dio. L'esperienza mistica ortodossa non favorisce la cultura, non crea la bellezza. Nell'esperienza mistica ortodossa c'è una sorta d'incapacità di parlare al mondo esterno, una mancanza d'incarnazione. L'energia ortodossa non si riversa sulle vie della storia. La sazietà dell'esperienza ortodossa non agisce all'esterno, l'uomo non tende le proprie forze e semplicemente non tende a nulla.

In questa differenza delle due vie dell'esperienza religiosa si cela un grande mistero. [...]

Esiste una mistica ortodossa ufficiale e ne esiste una cattolica ufficiale, ma la natura della mistica è sovraconfessionale. La mistica si situa sempre su un piano più profondo di quello delle discordie e delle contrapposizioni tra le varie confessioni ecclesiali. Ma le diversità tra le varie forme di esperienza mistica possono generare delle divisioni ecclesiali.
D'altra parte è solo immergendosi sempre più profondamente nella mistica che si può rivitalizzare la vita ecclesiale e che ci si può contrapporre alla sclerotizzazione della Chiesa visibile.
Le radici vive della Chiesa sono nella mistica.

Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Milano 1994, pp. 367-370.



La pratica dell’orazione personale e della liturgia comunitaria nel primo francescanesimo

La pratica dell’orazione personale e della liturgia comunitaria nel primo francescanesimo

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Francesco d'Assisi in un affresco del XIII sec.

Tratto da:
Pietro Chiaranz, Francesco d’Assisi e la tradizione ascetica bizantina: alcune fondamentali convergenze.

Questo scritto mostra la vicinanza della prassi liturgica francescana del XIII secolo con il mondo bizantino odierno.

La fuga dal rumore e dai traffici mondani è finalizzata al ritiro della propria mente nel cuore, luogo dell’incontro con Dio, secondo i famosi passi evangelici per cui: “il Regno di Dio è dentro di voi” (1) (Lc 17, 21), e “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23). La scoperta della presenza di Dio non avviene, però, senza che non vi sia, da parte umana, una disposizione data dalla preghiera. La preghiera, secondo l’antica prassi patristica, non è un modo per attirarsi la benevolenza di Dio, né è necessaria a Dio dal momento che, come recita il salmo, “la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta” (Sl. 138, 4). La preghiera, piuttosto, favorisce l’orientamento dello spirito umano verso Dio e ne allontana l’oblio. Per questo è indispensabilmente unita alla fuga mundi. San Paolo, nei riguardi della preghiera, è perentorio: “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza” (Ef 6, 18).


Francesco d’Assisi ha presente questo tipo di tradizione fino a divenire un uomo fatto preghiera: “Spesso senza muovere le labbra, meditava a lungo dentro di sé e, concentrando all’interno le potenze [le forze] esteriori, si alzava con lo spirito al cielo. In tal modo dirigeva tutta la mente e l’affetto a quell’unica cosa che chiedeva a Dio: non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente” (2). E ancora: “Quando, invece, pregava nelle selve e in luoghi solitari, riempiva i boschi di gemiti, bagnava la terra di lacrime, si batteva con la mano il petto; e lì, quasi approfittando di un luogo più intimo e riservato, dialogava spesso ad alta voce col suo Signore: rendeva conto al Giudice, supplicava il Padre, parlava all’Amico, scherzava amabilmente con lo Sposo” (3). Lo stile di Francesco passò inevitabilmente ai suoi primi discepoli. Tommaso da Eccleston dichiara che i frati dei primi tempi erano così fervorosi nella preghiera che “alcuni si trovavano sempre nella cappella a pregare a qualsiasi ora anche della notte” (4). La preghiera del Poverello era notevole non solo quantitativamente ma pure qualitativamente. In essa doveva applicarsi la fuga mundi, come sopra ricordato, ossia doveva essere praticata senza distrazioni, nel senso che il pensiero non doveva disperdersi nella molteplicità della realtà esteriore ma servire solo l’Unico necessario. Perciò, egli “credeva di peccare gravemente, se mentre pregava era disturbato da vani fantasmi. Quando ciò capitava, ricorreva alla confessione per accusarsene subito. L’aveva resa così abituale questa premura, che molto raramente era tormentato da questo genere di ‘mosche’” (5). Tommaso da Celano racconta che una volta Francesco, mentre pregava, fu momentaneamente distratto dalla presenza di un vaso da lui stesso realizzato. Al termine della preghiera se ne dolse talmente che decise di distruggerlo (6). Quel vaso era stato la causa di una momentanea fuga della sua mente dal cuore in cui risiede la presenza divina, per dirla con linguaggio esicasta (7).


È utile anche accennare che la preghiera per Francesco non era un’attività senza rapporto con il corpo, dal momento che anche il corpo doveva accompagnare l’adorazione dello spirito. Comunemente alla prassi fino ad allora seguita anche nella Chiesa latina (8), è assai probabile che Francesco accompagnasse la sua preghiera con profonde prostrazioni, come si faceva e si fa ancora oggi nella Chiesa orientale. D’altronde, egli raccomandava: “Udendo il nome del Quale, adoratelo con reverente timore proni verso terra: Signore Gesù Cristo, Figlio dell’Altissimo è il suo nome, che è benedetto nei secoli” (9).


Quanto detto fino ad ora per l’orazione personale di Francesco, si può ritrovare anche nella tradizione ascetica bizantina. In particolare, per quanto riguarda la preghiera continua o ininterrotta san Gregorio Nazianzeno scrive: “Bisogna ricordarsi di Dio più spesso di quanto respiriamo, e, se è possibile dirlo, non bisogna fare altro che questo. Anche io sono tra quelli che approvano le parole che prescrivono di ‘esercitarsi giorno e notte’, di ‘raccontarlo a sera, al mattino e a mezzogiorno’ e di ‘benedire il Signore in ogni circostanza’; se bisogna anche ripetere le parole di Mosè, ‘quando riposiamo a letto, quando ci alziamo e quando siamo in viaggio’ mentre facciamo qualunque altra cosa, conformandosi alla purezza ricordandoci di Lui” (10). Successivamente al Nazianzeno, questa raccomandazione - che non fa altro che riprendere il passo paolino suaccennato e la prassi dei Padri del deserto -, è ripetuta da molti altri. San Giovanni il Climaco, ad esempio, dice: “L’anima che di giorno si occupa senza interruzione del pensiero di Dio, ne ha familiare il ricordo durante il sonno” (11). Il dottore esicasta, san Gregorio Palamas, vissuto posteriormente a Francesco d’Assisi, riprende tutta la grande tradizione ascetica bizantina e la sistematizza. Riguardo alla preghiera continua egli così esorta i fedeli: “Affrettiamoci, fratelli, […] a ricambiare la divina adorazione con l’amore per Dio […], liberandoci da tutte le cose terrene, con una continua preghiera, la salmodia e con un impegno costantemente partecipe” (12).


Abbiamo visto che Francesco, mentre pregava, piangeva. Le lacrime di compunzione esistono anche nella tradizione ascetica bizantina, che segue, come già accennato, la linea stabilita dai Padri del deserto. Queste lacrime non devono essere intese in senso sentimentale, bensì nel modo specificato dagli antichi scritti ascetici: esse esprimono la gioia e la dolcezza della presenza del Signore così come l’angoscia per la distanza dell’uomo da Dio. La Scrittura, d’altronde, ricorda che “uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (13) mentre il salmista scrive d’inondare ogni notte di pianto il suo giaciglio (cfr. Sl. 6, 7). Facendo eco a ciò, i Padri ripetono l’esperienza biblica raccomandandola. In Occidente nella Regula Sancti Benedicti è scritto: “Sappiamo inoltre che non ci faranno esaudire le molte parole, ma la purezza del cuore e la compunzione del pianto” (14). Gregorio Nazianzeno parla delle lacrime come di un quinto battesimo, dopo quello allegorico, avvenuto nell’acqua del Mar Rosso, di Mosè (cfr. 1 Cor 10,2), quello solamente penitenziale di Giovanni Battista, quello di Cristo avvenuto nello Spirito Santo e quello dei martiri che avviene nel sangue: il battesimo delle lacrime “è un battesimo più impegnativo, perché è quello che bagna ogni notte di lacrime il proprio letto e il proprio giaciglio” (15). Questa tradizione giunge fino ai nostri giorni. San Silvano l’Atonita (1866-1938) pregava per il mondo intero piangendo con lo spirito degli antichi asceti. Lo possiamo capire da queste righe che riflettono la sua esperienza: "[Il Signore] a volte fa il dono all’anima di amare il mondo. Allora, essa piange per il mondo intero e implora il Maestro buono e misericordioso di diffondere la Sua grazia su ogni anima avendo pietà di essa” (16). In una sua poesia si trova scritto: “La mia anima ha sete del Signore / e con lacrime io Lo cerco” (17).


Pure l’attenzione alla preghiera, che abbiamo visto caratterizzare Francesco d’Assisi, è fortemente raccomandata dai Padri (18). Questo è ancora ben presente nel mondo religioso bizantino odierno. Un esempio odierno ci è fornito dall’Anziano Paisios del Monte Athos (1924-1994) il quale era solito raccomandare di tenere la testa “nel frigorifero”, ossia in un modo da congelare tutti i pensieri che possono disturbare la vita religiosa e la preghiera. Egli raccomandava: “Non dobbiamo trascurare la preghiera [continua del nome] di Gesù. Quando abbiamo l’occasione, la dobbiamo recitare. La nostra mente non deve disperdersi inutilmente. Con questa preghiera l’intelletto si riposa e gioisce” (19).


Per quanto riguarda la preghiera comunitaria, Francesco dispose che i suoi seguissero la liturgia in uso nella Chiesa di Roma (20), sia per la Messa che per il Breviario, differenziandosi così dagli usi e dalle liturgie locali di allora. Qui è importante notare il modo in cui veniva eseguita questa liturgia nelle prime comunità francescane. Oltre a contraddistinguersi per pietà ed attenzione, essa aveva alcune modalità molto simili a quelle bizantine. La prassi liturgica dell’ordine in Inghilterra, durante le Veglie notturne nelle solennità, può benissimo essere paragonata ad una agripnia (veglia) bizantina odierna.


Tommaso da Eccleston descrive con gioia e meraviglia il fervore dei frati nella recita dell’Ufficio divino: “Nelle principali feste dell’anno cantavano l’ufficio con tanto fervore, che le veglie si prolungavano qualche volta per tutta la notte; e quando non erano che tre o quattro o al massimo sei, cantavano con solennità e con accompagnamento musicale” (21). Si tratta, dunque, di un ufficio notturno cantato. Chi ha pratica della vita liturgica tradizionale, laddove essa viene ancora eseguita, sa quanto sia difficile mantenere delle ufficiature cantante, dal momento che richiedono una certa applicazione e una particolare specializzazione musicale. Per questo oggi è piuttosto raro trovare delle comunità religiose in cui questa consuetudine sia praticata. E se è difficile trovare chi esegua in canto le ufficiature diurne, è quasi impossibile incontrare chi canti quelle notturne. Alla luce di ciò, la testimonianza di Tommaso da Eccleston è particolarmente significativa. Non solo egli ravvisa un notevole fervore, da parte dei frati, ma nota pure la capacità, addirittura nel caso in cui ci siano solo tre religiosi, di far rivivere l’antica tradizione di un’ufficiatura notturna cantata. Perciò, sotto tale aspetto, questi primi discepoli di Francesco possono essere benissimo paragonati con il mondo monastico bizantino.


Inoltre, Tommaso da Eccleston ci fa sapere che i frati recitavano l’ufficio sempre in piedi e ricorda un ministro provinciale che rimproverò aspramente un frate seduto durante la recita delle ore canoniche (22). Questa modalità di celebrare la liturgia delle ore, era una consuetudine praticata dallo stesso Francesco (23). Ciò riporta alla mente quanto dice, a tal proposito, san Giovanni Climaco: “Chi intende stare sensibilmente alla presenza del Signore nell’intimo del cuore pregherà certo in posizione eretta ed immobile come una colonna, senza mai farsi illudere da qualcuno di tali demoni [dello sbadiglio e del riso durante la preghiera]” (24). Questo genere di raccomandazioni hanno trovato sempre degli esecutori nel mondo bizantino e ve ne sono anche ai giorni nostri. Ricordo chiaramente come, durante una veglia notturna di alcuni anni fa’ in un monastero del Monte Athos, mi fu indicato un monaco molto anziano giunto nel katholikon (25) per un panighiri (26). Quell’anziano aveva la caratteristica di rimanere in piedi per tutta la preghiera, incurante della sua veneranda età. Così, mentre io ad un certo punto mi coricai, lui era ancora là e là lo ritrovai alcune ore dopo, verso le sette, in occasione della Divina Liturgia. Egli era visibilmente stremato, ma tenacemente eretto. Dunque questa consuetudine, che si riscontra nelle testimonianze relative a Francesco d’Assisi e ai suoi primi discepoli, è propria pure al mondo religioso bizantino.


Nella storia iniziale del movimento francescano, si può trovare un ultimo particolare degno di nota: l’esistenza di un frate cantore (27), il cui compito doveva consistere nell’eseguire in modo appropriato l’Ufficio divino. È un poco quanto avviene nelle comunità monastiche bizantine in cui esiste il cosiddetto protopsaltis (28) che svolge il medesimo compito.


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NOTE


1. Il passo segue la traduzione del vangelo in uso nella Chiesa bizantina dove il termine ἐντὸς significa “dentro” (di voi), non “in mezzo” (a voi), com’è invece possibile trovare in molte traduzioni odierne (vedi, ad es., la traduzione CEI della Bibbia di Gerusalemme).


2. Tommaso da Celano, Vita seconda, 95, in FF, p. 630.


3. Ibid.


4. Tommaso da Eccleston, L’approdo dei frati minori in Inghilterra, V, Edizioni O.R., Milano 1979, p. 37.


5. Tommaso da Celano, Vita seconda, 97, in FF, p. 630-631.


6. Cfr. Ibid. p. 632. Tommaso da Celano aggiunge che il vaso fu fatto da Francesco nei “ritagli di tempo e per non perdere neanche un istante”. In questo fugace appunto si nota il senso del lavoro per il Poverello: obbligare la mente ad un impegno per non disperdersi inutilmente. Siamo ben lungi da quella mentalità che considera il lavoro quale valore per se stesso.


7. L’Esichìa, o quiete, era ricercata da coloro che, fuggendo dal mondo, si ritiravano in eremi e monasteri. Nel mondo bizantino si creò un vero e proprio movimento esicasta il cui personaggio di spicco fu san Gregorio Palamas (1296-1359).


8. Vedi, a tal proposito, Schmitt J.C., Il gesto nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 275-282.


9. Francesco d’Assisi, Lettera al Capitolo generale e a tutti i frati, in FF, p. 162.


10. Gregorio Nazianzeno, Orazione 27, in Id., Tutte le Orazioni, a cura di Claudio Moreschini, Bompiani, Milano 2000, p. 647.


11. Giovanni Climaco, La scala del Paradiso. Ventesimo discorso, p. 220.


12. Gregorio Palamas, Omelia 47, in Id., Che cos’è l’Ortodossia. Capitoli, Scritti ascetici, Lettere, Omelie, Bompiani, Milano 2006, p. 1454.


13. Sl. 50, 19.


14. Regula sancti Benedicti 20, 8, in Gregorio Magno, Vita di san Benedetto e La Regola, p. 187.


15. Cfr. Gregorio Nazianzeno, Orazione 39, p. 917. Si noti come Gregorio riprende alla lettera il salmo succitato.


16. Cfr. Larchet J.-C., Saint Silouane de l’Athos, Éditions du Cerf, Paris 2001, p. 167.


17. Sofronio, Archimandrita, Ascesi e contemplazione, Servitium-Interlogos, Sotto il Monte-Schio 1998, p. 61.


18. Si veda a titolo di puro esempio: Giovanni Climaco, La scala del Paradiso, 118, Cittanuova, Roma 1995, p. 217; Regula sancti Benedicti 19, 7 in Gregorio Magno, Vita di san Benedetto e La Regola, p. 187; Isacco di Ninive, Grammatica di vita spirituale, Discorso 7, San Paolo, Roma 2009, pp. 162-169.


19. Tatsis D., Non cercate una santità a buon mercato, Edizioni Dehoniane, Roma 1995, p. 68.


20. La liturgia romana, in quel tempo, aveva molti elementi in comune con il mondo cristiano orientale. Ne accenniamo solamente due: il battesimo era ancora effettuato esclusivamente per immersione e il segno della croce avveniva non con la mano distesa, ma in modo simile a quello bizantino, per indicare la confessione dell’unità nella trinità divina. Vedi Righetti M., Storia Liturgica, 1, Marietti, Torino, pp. 369-370; Ibid., 4, p. 109.


21. Tommaso da Eccleston, L’approdo dei frati minori in Inghilterra, V, pp. 37-38.


22. Id., L’approdo dei frati minori in Inghilterra, Ibid., XIV, p. 88.


23. Id., Vita seconda di san Francesco d’Assisi, 62, in FF., p. 631.


24. Giovanni Climaco, La scala del Paradiso, Cittanuova, Roma 1995, p. 217.


25. La chiesa principale del monastero.


26. Solennità liturgica.


27. Cfr. Esser K., Origini e inizi del movimento e dell’ordine francescano, p. 132.


28. Letteralmente: “primo cantore” o “cantore principale”.