Oración , Preghiera , Priére , Prayer , Gebet , Oratio, Oração de Jesus

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CATECISMO DA IGREJA CATÓLICA:
2666. Mas o nome que tudo encerra é o que o Filho de Deus recebe na sua encarnação: JESUS. O nome divino é indizível para lábios humanos mas, ao assumir a nossa humanidade, o Verbo de Deus comunica-no-lo e nós podemos invocá-lo: «Jesus», « YHWH salva» . O nome de Jesus contém tudo: Deus e o homem e toda a economia da criação e da salvação. Rezar «Jesus» é invocá-Lo, chamá-Lo a nós. O seu nome é o único que contém a presença que significa. Jesus é o Ressuscitado, e todo aquele que invocar o seu nome, acolhe o Filho de Deus que o amou e por ele Se entregou.
2667. Esta invocação de fé tão simples foi desenvolvida na tradição da oração sob as mais variadas formas, tanto no Oriente como no Ocidente. A formulação mais habitual, transmitida pelos espirituais do Sinai, da Síria e de Athos, é a invocação: «Jesus, Cristo, Filho de Deus, Senhor, tende piedade de nós, pecadores!». Ela conjuga o hino cristológico de Fl 2, 6-11 com a invocação do publicano e dos mendigos da luz (14). Por ela, o coração sintoniza com a miséria dos homens e com a misericórdia do seu Salvador.
2668. A invocação do santo Nome de Jesus é o caminho mais simples da oração contínua. Muitas vezes repetida por um coração humildemente atento, não se dispersa num «mar de palavras», mas «guarda a Palavra e produz fruto pela constância». E é possível «em todo o tempo», porque não constitui uma ocupação a par de outra, mas é a ocupação única, a de amar a Deus, que anima e transfigura toda a acção em Cristo Jesus.

segunda-feira, 17 de setembro de 2012

Thomas H. Green CHE COS'È LA PREGHIERA


Thomas H. Green

CHE COS'È LA PREGHIERA




Una guida alla preghiera

Per parecchi anni sono stato direttore spirituale in un Seminario Maggiore. Il lavoro del direttore spirituale è l'unico per cui non sem­bra esservi nessun tirocinio, eccetto l'esperienza.

Il direttore spirituale è una miscela curiosa: un alter ego, o un altro se stesso, uno che condivide con i giovani ciò che è più pre­zioso e più provato per loro, il loro proprio io. Egli è qualcosa co­me un guru, da cui essi sperano di imparare «mantra» segreti: è una spalla forte su cui appoggiarsi nei periodi tribolati e una cas­sa armonica per le loro speranze ed i loro progetti. In tutto que­sto, mi sembra che il direttore spirituale sia soprattutto un ascol­tatore. Veramente, la cosa più difficile che egli deve imparare è ascoltare: non passivamente, ma creativamente e in modo ap­propriato.

Bruscamente, sull'importanza e la difficoltà di ascoltare, mi furono aperti gli occhi in un'occasione. Un bel seminarista stava ini­ziando un ritiro diretto, ed io, nel mio stile usuale, desideravo metterlo tranquillo spiritualmente e aiutarlo ad aprirsi. Quando ci incontrammo la sera per discutere su come era trascorso il primo giorno, cominciai ad interrogarlo sulla sua esperienza. Egli tagliò corto dicendo: «Prima di iniziare vorrei chiederle un favore». «Di che cosa si tratta?» chiesi. Mi rispose: «Tutte le volte che inizia a parlare, io divento nervoso e dimentico ciò che desideravo dire. Così, per favore, non dica nulla, fino a che io abbia finito di con­dividere ciò che vorrei condividere». Nei giorni successivi riuscii con successo (eroicamente!) a tacere e da allora ho scoperto che, per me, da quel chiacchierone che sono, imparare ad ascoltare be­ne richiede molta disciplina.

Quando rifletto su questi anni passati ad imparare ad ascolta­re, mi rendo conto che il grande sforzo richiesto mi ha insegnato sulla preghiera molto più di qualsiasi altro aspetto del mio mini­stero sacerdotale: sia perché l'arte dell'ascolto mi sembra il cuo­re della preghiera, sia perché la preghiera stessa è stata l'argomento principale di cui i seminaristi hanno voluto parlare. Sorgono mol­ti problemi: famiglia, studi, vocazione, celibato, comunità. E il lo­ro continuo ricorrere nelle nostre conversazioni, è preghiera. La do­manda di base è: ma che cosa è la preghiera? Non possiamo par­lare veramente di come pregare, fino a quando non abbiamo un'i­dea precisa di che cosa è la preghiera.

Quelli di noi che sono abbastanza anziani hanno imparato pre­sto a definire la preghiera «elevazione della mente e del cuore a Dio». Questa era una definizione molto facile da memorizzare: chia­ra e concisa. Una buona definizione. Ci ha insegnato che:

1) Dio è molto al di sopra della nostra normale esperienza;

2) pregare com­porta sforzo da parte nostra;

3) pregare coinvolge la mente e il cuo­re - comprensione, sensibilità e volontà - dell'uomo.

Se ap­profondiamo questi tre elementi, forse riusciamo ad avere un qua­dro più chiaro proprio di che cosa dovrebbe essere la preghiera.

L'ultimo punto - il posto del cuore nella preghiera - è im­portante e non sempre è stato ben chiaro. Per molti dei padri del deserto e dei teologi della Chiesa primitiva, forse perché larga­mente influenzati dalla filosofia greca, la preghiera era soprattutto materia per la comprensione e la conoscenza. Qualcosa di simi­le era la teologia, che cercava di mettere la ragione al servizio della fede, di usare la ragione per capire e per chiarire il mistero del­la rivelazione divina. il teologo e l'uomo di preghiera non diffe­rivano tanto in quello che facevano, infatti entrambi ricercavano una conoscenza, quanto nei mezzi che usavano per raggiungerla. Il teologo usava le sue facoltà naturali di ragionamento e dì ri­flessione, mentre l'uomo di preghiera, nella tradizione antica, usa­va tecniche esoteriche e segrete, che si supponeva conducessero ad una via privilegiata, soprannaturale, «mistica», di conoscenza di Dio e di comprensione della realtà ultima.

Questa visione della preghiera e della spiritualità fu subito condannata dalla Chiesa come eretica. Il suo maggior difetto non fu comunque l'accento sulla comprensione rispetto alla relativa trascuratezza del cuore. La pecca realmente fatale di queste prime teorie di preghiera riguardava maggiormente il secondo dei tre punti che abbiamo summenzionato, e cioè, che la preghiera com­porta sforzo da parte nostra. Fu condannata per la rilevanza ec­cessiva dello sforzo personale dell'uomo. Nella terminologia par­tigiana del tempo, essa fu definita «pelagiana» o «semi-pelagia­na», in quanto seguiva il teologo Pelagio nel sovrastimare la ca­pacità dell'uomo di incontrare Dio, in base agli sforzi personali, e nel negare il primato assoluto della Grazia di Dio. C'è un ba­ratro incalcolabile tra Dio e l'uomo; l'uomo, per quanto possa im­pegnarsi, non può raggiungere Dio, non può scavalcare l'im­mensità. Non può neppure, come asseriscono i semi-pelagiani, fa­re il primo passo per arrivare a Dio. Questi solo può saltare l'im­menso abisso tra il Creatore e la creatura: questo è quanto Gesù ha fatto nell'incarnazione ed è quanto fa nella vita di ogni uomo di fede che vuole incontrarlo veramente.

Sebbene la concezione semi-pelagiana sia facilmente relegabile nella pattumiera della storia temo che la situazione reale non sia altrettanto semplice. Se penso ai miei stessi anni di scuola di pre­ghiera, devo riconoscere che anche in me c'è stata forse una buo­na dose di semi-pelagianesimo. Le strutture nelle quali sono sta­to formato tendevano a porre l'accento su un tipo di spiritualità «re­golabile come il cinturino degli stivali». Durante il noviziato, il momento di preghiera era rigidamente prescritto. I libri sull'argomento erano provvisti di meditazione strutturate; meditavamo in 60 per stanza; l'unica po­sizione accettabile era in ginocchio. Se qualcuno non si inginoc­chiava durante la preghiera, poteva aspettarsi una convocazione dal direttore dei novizi ed un interrogatorio per sapere se fosse mala­to. Io stesso tremavo per tutta la durata di alcuni di questi incon­tri; allo stesso tempo, mentre li temevo, capivo che sviluppavano il mio carattere e la mia autodisciplina. Più tardi ancora, quando io stesso divenni direttore spirituale, mi resi conto che queste re­gole facevano parte dello spirito diffuso di un periodo in cui ascetismo, abnegazione, soppressione della propria volontà e dei propri desideri erano, in un certo senso, al cuore della spiritualità. Era come se il misterioso messaggio di Gesù: «dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il Regno dei Cieli soffre violen­za e i violenti se ne impadroniscono» (Mt I 1,12), fosse da porsi, da solo e fuori da ogni contesto, come base per l'intera spiritua­lità.

Il frutto della controversia semi-pelagiana è stato quello di far­ci capire che il nostro sforzo personale è completamente secondario rispetto al lavoro di Dio nell'incontro con noi. Da qualche tempo penso che questo sia il difetto nella definizione tradizionale di pre­ghiera, con cui abbiamo iniziato questo capitolo. L'idea di eleva­re la nostra mente ed il nostro cuore a Dio mi sembra ancora sup­porre che la preghiera sia materia del nostro sforzo personale, che Dio sia soltanto spettatore, mentre noi cerchiamo modi e signifi­cati per elevarci a Lui. Una concezione simile sarebbe ovviamen­te semi-pelagiana, e quindi inaccettabile per il cristiano.

Da quando recentemente i cristiani hanno mostrato molto in­teresse allo Yoga, allo Zen e loro derivati, è importante annotare, in questo contesto, che una visione simile trova un supporto con­siderevole nelle grandi religioni orientali come l'induismo ed il Buddismo. In queste tradizioni orientali che non conoscono un Dio personale, pregare dipende completamente dallo sforzo dell'uomo anche se quello sforzo, abbastanza paradossalmente per gli occi­dentali, è applicazione totale per vuotare la mente, per raggiungere la pace, la non-azione. È importante notare comunque che, perfino nelle tradizioni più comuni - e particolarmente nella letteratura clas­sica dell'induismo - ci sono affermazioni sulla personalità di Dio e i segni di una dottrina della Grazia. Ne La Bhagavad Gita, il Benedetto dice dei suoi veri discepoli:


«A coloro che sempre Mi servono e Mi adorano con amore e devozione do l'intelligenza con la quale potranno venire a Me».


All'interno dell'induismo ci sono state delle dispute sul signi­ficato letterale di testi come questo. Ma per noi cristiani non vi può essere dubbio: Dio è una persona (in effetti, tre persone!) e pre­gare è un incontro personale con Lui. Oltre a questo è un incon­tro che dipende quasi interamente dalla Sua Grazia, poiché Egli è Dio.

Questo non è il luogo per tentare di spiegare al cristiano con­fuso che cosa vi sia esattamente alla fine del cammino di preghiera per l'induista o il buddista contemplativo. Penso semplicemente che la preghiera cristiana è fondata su una specifica concezione di Dio: un Dio personale che incontra le sue creature che ama.

Tornando alla definizione tradizionale, la concezione della pre­ghiera come elevazione della mente e del cuore a Dio sembra sol­lecitare eccessivamente il nostro sforzo personale e la nostra atti­vità nella preghiera stessa. Da qualche tempo suggerisco che un ap­proccio migliore sarebbe quello di definire la preghiera come un'apertura della mente e del cuore a Dio. Mi sembra migliore per­ché l'idea di apertura accentua la ricezione e la sensibilità verso un'altra persona. Aprirsi ad un altro è agire, ma agire in modo ta­le che l'altro rimanga la parte dominante.

Forse l'esempio più chiaro di apertura è l'arte dell'ascolto, di cui abbiamo discusso all'inizio del capitolo. Ascoltare è davvero un'arte, che alcune persone non imparano mai. Tutti noi ab­biamo conosciuto persone che non ascoltano. Esse sentono, ma non capiscono. Il loro orecchio corporeo raccoglie il suono, ma il loro cuore non è attento al suo significato. Puoi parlare a lo­ro, ma puoi parlare a mala pena con loro. JHWH usa questa im­magine di sentire ma di non ascoltare per esprimere la sua fru­strazione con Israele: «Questo dunque ascoltate, o popolo stol­to e privo di senno, che ha occhi ma non vede, che ha orecchi ma non ode» (Ger5,21); e Gesù utilizza le stesse espressioni quan­do parla ai suoi «ascoltatori» dopo la moltiplicazione dei pani: «Perché discutete che non avete pane? Non intendete e non ca­pite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate?» (Mc8,17-18).

Sentire o ascoltare sono metafore utili per la preghiera. Il buon orante è soprattutto un buon ascoltatore. La preghiera è dia­logo; è un incontro personale d'amore. Quando comunichiamo con qualcuno che ci è caro, noi parliamo ed ascoltiamo. Ma il no­stro parlare è anche rispondente: quanto diciamo dipende gene­ralmente da quanto l'altro ci ha detto. Altrimenti non è vero dia­logo, ma piuttosto due monologhi che corrono paralleli.

Credo che queste osservazioni ci abbiano condono sulla via giusta per la comprensione di che cosa è la preghiera. In passa­to abbiamo catalogato la preghiera sotto quattro titoli: Adorazione, Contrizione, Ringraziamento e Supplica. Questo aiuta a chiarire che la preghiera è molto più vasta della mera richiesta di co­se (cioè della supplica). Abbiamo visto che da parte nostra è ne­cessario andare più a fondo in questi quattro punti, per arrivare al significato vero della preghiera. La preghiera è essenzial­mente un incontro di dialogo tra Dio e l'uomo; e poiché Dio è il Signore, Egli solo può iniziare l'incontro. Questa è l'implicazione importante del primo elemento della nostra definizione tradi­zionale. Ne segue che ciò che l'uomo fa o dice nella preghiera dipenderà da quello che Dio fa o dice prima di lui. Qui soprat­tutto è vero che «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). Lascelta di Dio, la sua chiamata, è fondamentale e più importante di tutto.

Allo stesso tempo, quindi, la preghiera è un dialogo, un incon­tro tra due persone. Quello che l'uomo fa o dice è parte integrale della preghiera, dal momento che persino Dio non può parlare con noi, se noi non rispondiamo. Dio stesso non può dialogare con l'uomo che interiormente è sordo e muto.

Questo era il secondo elemento valido nella definizione tradi­zionale: pregare implica sforzo da parte dell'uomo, anche se è Dio che ci raggiunge attraverso l'infinito, ed anche se lo sforzo dell’uomo è esso stesso impossibile senza il sostentamento della Grazia di Dio.

D'altra parte, come chiarisce il terzo elemento della definizio­ne tradizionale, la risposta dell'uomo coinvolge sia la sua mente che il suo cuore. La comprensione ha un ruolo importante nella pre­ghiera, dal momento che l'uomo non può amare ciò che non co­nosce. Il suo amore è proporzionato alla sua conoscenza: e, contemporaneamente, la preghiera non è puro ragionamento o spe­culazione su Dio. Come santa Teresa d'Avila dice nel Castello Interiore: «L'essenziale non è già nel molto pensare, ma nel mol­to amare». Lo scopo della preghiera è l'incontro con Dio nell'amore. E l'amore - come Teresa continua - «consiste, non nell’estensione della nostra felicità, ma nella fermezza della nostra determinazione nel tentativo di piacere a Dio in ogni cosa». La pre­ghiera perciò coinvolge il cuore e la volontà dell'uomo, perfino più a fondo della sua comprensione.

Fu sant'Agostino, uno dei più grandi intellettuali che la Chiesa abbia prodotto, che disse: «il nostro cuore non ha quiete finché non riposa in Te». Per l'uomo erudito il compimento può essere nella mente che raggiunge la tranquillità, ma per l'uomo di fede, per l'innamorato, è il cuore che importa maggiormente.

In questa relazione è importante notare che la spontaneità è la vera essenza della preghiera, come lo è di tutti i dialoghi. Il «cuore» per sant'Agostino è un organo spontaneo, che risponde al sacramento di questo momento. La sua risposta non può essere programmata, perché non possiamo conoscere in anticipo quan­to Dio ci dirà in ogni momento donato. Quando eravamo novi­zi, ci esortavano a programmare le nostre conversazioni della ri­creazione, presumibilmente perché gli argomenti discussi fossero fruttiferi ed elevati. Il risultato, naturalmente, erano delle con­versazioni pompose, e degli incontri divertenti, ma soprattutto fru­stranti, dove ogni partecipante si impegnava forsennatamente per portare il discorso sull'argomento che egli aveva programmato. Da allora ho sentito la stessa cosa negli incontri di società ed ai ricevimenti, con gli stessi ridicoli risultati. Nel noviziato l'in­tenzione era buona, ma la perdita di spontaneità, disastrosa. La stessa cosa si verificherebbe in un approccio programmato alla preghiera.

Per il principiante c'è ancora confusione e mistero nell'a­scolto di Dio. Per l'uomo di preghiera esperto non c'è più confusione, ma rimarrà sempre il mistero. Poiché non incontriamo mai Dio nello stesso modo in cui incontreremmo un essere uma­no, come possiamo sapere quando Dio ci parla? Come interpre­tare quello che «dice», quando Egli non parla come un uomo? Come posso rispondere significativamente a qualcuno la cui ve­nuta è sempre nascosta nel mistero della fede? Brevemente, co­me so che non sto parlando solo a me stesso, quando prego?


CI SONO DELLE TECNICHE DI PREGHIERA?



Abbiamo trattato varie tecniche per raggiungere una pace attenta davanti al Signore. Non tutte sono proprio preghiere - cioè un incontro personale con Dio nell'amore - ma sono normali prerequisiti per la preghiera

Lo sforzo per arrivare alla pace non è preghiera. Verrà il mo­mento in cui colui che contempla dovrà chiudere gli occhi, la mu­sica di sottofondo dovrà essere spenta, anche il vagabondo dovrà sedersi e il devoto di giaculatorie dovrà stare zitto, cioè il tempo del «Fermatevi e sappiate che io sono Dio» (Sal 46,11).



Gli ultimi quindici anni (l’autore scrive nel 1977) sono stati un periodo di insolito fermento nella Chiesa, col cambiamento radicale ed il superamento improvviso di molte istituzioni e pratiche consolidate. La forma­zione alla preghiera non è stata esente da questo fermento. Per ge­nerazioni i principianti nella preghiera sono stati educati con libri sull'argomento ed altri sussidi per la meditazione. I seminaristi im­paravano a pregare riunendosi nella cappella del seminario per la lettura giornaliera di una meditazione con pause appropriate per riflettere personalmente su quanto avevano sentito. Perfino i colloqui, o le conversazioni personali con Dio, che si supponeva concludessero il momento di preghiera, spesso erano lette ad alta voce a tutto il gruppo, oppure spiegate in un libro. La preghiera co­siddetta mentale aveva una struttura ben definita: azioni preparatorie, lettura del testo, riflessione personale e colloquio conclusi­vo. Imparare a pregare significava familiarizzare con questa strut­tura e permetterle di diventare una seconda natura nella propria vi­ta. I modelli che potevano sostenere una persona per 50 anni a ve­nire erano così acquisiti.
Poi, a metà anni Sessanta, le cose improvvisamente cambiarono. L'intera struttura, il libro adatto per l'approccio alla preghie­ra, sembravano troppo rigidi ed impersonali in un mondo guida­to dallo Spirito. L'aria nuova che il grande papa Giovanni XXIII portò nella Chiesa sembrò far vacillare la struttura che durava da tanto tempo. La preghiera doveva essere personale, spontanea, unica per quel momento. Com'era possibile costringere lo Spirito di Dio in strutture di preghiera ripetitive e meccaniche inventate dall'uomo? Chi, dopotutto, poteva insegnare a un'altra persona co­me pregare, o giudicare sulla genuinità dell'incontro dell'altro col Signore?
Molte persone coinvolte nell'educazione persero fiducia in lo­ro stesse e nelle loro potenzialità, abbandonando il ruolo formativo che avevano assunto. Dando spazio a questi drastici cambiamenti, un uomo o una donna qualsiasi (specialmente un figlio del Vaticano I), come poteva presumere di insegnare ad un altro come incon­trare Dio? Padre Henri Nouwen in un capitolo classico di Intimacy intitolato «Depression in the Seminary», trattava gli effetti globa­li, psicologici e spirituali, di questo crollo di fiducia. Ciò provocò una situazione nella quale le guide erano incapaci o poco propen­se a guidare, e i fedeli gradualmente scoprivano di vagare da soli nelle tenebre. Pur rispettando l'educazione nella preghiera, nessuna formazione veniva considerata la migliore o, per lo meno, l'uni­ca possibile.
Se questo sembra esagerato, ricordo bene una situazione che mostra la drammaticità di questo cambiamento drastico ed improvviso nella formazione. Quale studente laureato all'Università di Notre Dame verso la fine degli anni Sessanta, ero cappellano ufficioso delle religiose che studiavano per la laurea. Per la mag­gior parte delle suore, gli studi di laurea erano (come l'ordinazione sacerdotale per un gesuita) la ricompensa per una vita spesa be­ne; esse avevano già superato la trentina e ne avevano già visto gli aspetti più oscuri. Perciò le nostre discussioni spesso si con­centravano sui difetti della nostra formazione e particolarmente sull'approccio eccessivamente strutturato e meccanico alla pre­ghiera, dal quale sembrava che noi spasimassimo di liberarci.
Una suora, appena uscita dal noviziato e molto più giovane del­le altre, partecipava attivamente alle nostre discussioni, ma fu so­lo in una conversazione privata con lei, un giorno, che mi resi con­to di quanto le sembrasse sorpassata la nostra inattività. Diceva che poteva apprezzare le difficoltà espresse dagli altri, ma non pen­sava che essi capissero quanto fosse già cambiata la situazione. Esse si concentravano sulla mancanza di libertà dello spirito; ma il suo problema, ed ella pensava fosse anche di quelli della sua età, era che nessuno aveva dato loro una guida precisa su come pre­gare. Erano assoggettati a un approccio alla preghiera del tipo «nuota o affonda»: getta il neonato nell'acqua e/o impara a nuota­re (a pregare) oppure annega. Quello che sentiva mancare di più era una guida per imparare a nuotare nel mare del Signore.
In quel tempo ero spaventato, ma solo col passare degli anni, da quando ho condiviso questa esperienza con molte persone de­gli anni dopo il Vaticano II, mi sono convinto di quanto esattamente ella rappresentasse i loro sentimenti. L'approccio “nuota o affon­da”, con l'aiuto della grazia, può forse produrre degli effettivi uomini di preghiera in giovane età, ma solo al prezzo di molti tra­gici annegamenti!
La nostra storia naturalmente, non finisce qui. Poco dopo il ri­getto del metodo classico di preghiera, cominciò la ricerca di me­todi e tecniche nuove e migliori: il fascino dell'Oriente nelle for­me pure dello Yoga e dello Zen, così come i loro ibridi commer­cializzali quali la meditazione trascendentale; l’istituzionalizzazione graduale delle strutture di preghiera carismatica; la ricerca di gu­ru dal quali acquisire la chiave per entrare nel regno interiore. L'implicazione era, in altre parole, che non era in sé sbagliato avere un metodo, ma i vecchi metodi erano difettosi. Tra quanti og­gi cercano di incontrare il Signore c'è stato un ritorno al metodo pur senza tornare al modi tradizionali.
È in questo contesto che dobbiamo interrogarci sulla tecniche di preghiera. Domandare se ce ne sono alcune, 15 anni fa sareb­be apparso fondamentalmente sbagliato, perché la convinzione era del tipo: naturalmente ci sono! E solo cinque anni dopo la ri­sposta di molti, data con la stessa convinzione, sarebbe stata: «Naturalmente no!». Ora, forse, non siamo così sicuri. Vogliamo le tecniche, ma temiamo la rigidità delle tecniche costituite. Andando ancora più a fondo, quella che forse realmente vogliamo è una tecnica che sia innocua, veloce e indolore e che non comporti la fatica e l'incertezza del passato. Se è così, stiamo cercando una scorciatoia per la santità e abbiamo già detto che non esiste una pos­sibilità simile. In questo senso non ci sono tecniche meccanicamente efficaci nella preghiera.
Non scartiamo comunque così velocemente l'intera domanda sulla tecnica o sul metodo. La nostra incertezza oggigiorno è sa­lutare e riflette un problema autentico nella preghiera. Come pos­siamo imparare senza che qualcuno ci insegni? (cfr Rm 10,14). E ancora, come passiamo essere istruiti senza «incatenare lo Spirito» (cfr 2 Tm 2,9) e imporre le nostre vie a Dio?
L'ultima domanda solleva un punto fondamentale, cominciamo quindi da qui. Poiché lo Spirito è libero di «soffiare dove vuole» (Gv 3,8) e di parlare come e quando preferisce, chiaramente, non può esserci alcuna tecnica per farlo parlare. Non possiamo accen­dere e spegnere Dio come un rubinetto dell'acqua o una lampadi­na. Per questo non ci sono tecniche. È così radicale la nostra dipendenza dalla benevolenza del Signore, che non possiamo nep­pure desiderare di pregare, a meno che Dio non ci guidi. Perfino gli esordi sono un puro dono. Per cui non ci sono tecniche di «meditazione», siano esse yoga o trascendentali o ignaziane, che possano mai garantire un incontro con il Signore.
D'accordo su questo punto molto importante, torniamo alla prima domanda di poco fa: come possiamo imparare a pregare sen­za che qualcuno ce lo insegni? Da quanto detto nel paragrafo pre­cedente potrebbe sembrare che l'insegnamento umano abbia pro­prio poca rilevanza qui, e che Dio parli a chiunque Egli desideri e quando lo decide, e che questo sia tutto quel che possiamo dire.
Ma per accettare tale affermazione si deve passar sopra alla na­tura apostolica e sacramentale della Chiesa: Dio ha scelto di lavorare attraverso gli uomini e di realizzare il Suo dono di grazia in segni visibili, strutturali. In riferimento alla preghiera, Egli ha voluto che imparassimo attraverso l'insegnamento di altre persone. Quando ero giovane, un giorno decisi di leggere Giovanni della Croce. Ero impaziente di imparare a pregare e la cosa migliore mi sembrava quella di sedermi ai piedi di un maestro riconosciuto. Ma più leg­gevo e più diventavo inquieto; sembrava che, se Giovanni avesse avuto ragione, tutta la mia vita intellettuale ed apostolica, come ge­suita, era sbagliata. Fortunatamente, prima di ritirarmi a vita ere­mitica, parlai con il mio direttore spirituale. Quello che mi disse ferì il mio orgoglio; ma era proprio ciò che avevo bisogno di sen­tire: «Forse non sei ancora abbastanza maturo per leggere Giovanni della Croce e capirlo. Forse devi solo aspettare un pò prima di trar­re profitto dal suo insegnamento». Il consiglio fu doloroso da ac­cettare, ma lo seguii e da allora l'ho ripetuto ad altri più di una vol­ta! Ma, per essere più precisi, che cosa può insegnarci esattamen­te una buona guida spirituale? In che senso ci sono tecniche e me­todi dì preghiera comunicabili?
Credo ci siano due sensi nei quali possiamo parlare legittima­mente di tecniche di preghiera.

1) In primo luogo, possiamo parlare di metodi per raggiungere la pace, per portare noi stessi a quel si­lenzio nel quale è possibile sentire la voce di Dio.

2) In secondo luogo, possiamo parlare di tecniche che ci dispongano positivamente all'incontro con il Signore. Per il cristiano, naturalmente, non è pos­sibile, niente di buono è possibile, senza la grazia di Dio. Ma cia­scuno rappresenta un caso particolare in cui noi possiamo e dob­biamo cooperare con la grazia per aprire noi stessi alla venuta del Signore nella nostra vita.

San Giovanni della Croce, con santa Teresa d'Avila, preminente dottore della Chiesa sulla preghiera, cominciò a trattare l'argo­mento sottolineando quella purificazione dell'anima che deve pre­cedere l'incontro di trasformazione con Dio. Egli distingue tra due possibili purificazioni: attiva e passiva. La purificazione attiva è quella che noi possiamo fare per disporci verso Dio; la purificazione passiva è quella che Dio fa per disporci nei suoi confronti. Per Giovanni la purificazione passiva - quello che Dio fa per purificarci - è di gran lunga la più importante, ma egli non è af­fatto un quietista o un passivista; per lui, il nostro contributo, seb­bene secondario, è essenziale per la crescita. Non possiamo semplicemente sederci e lasciare tutto a Dio. Nella preghiera, per Teresa e Giovanni, Dio aiuta coloro che fanno quello che possono per aiutare loro stessi.
Supponiamo che voglia ascoltare un programma radiofonico o televisivo: devo allontanarmi da altri rumori che disturbano, op­pure eliminarli e questo per raggiungere la tranquillità; e devo ac­cendere e sintonizzare la radio o la televisione: questo è dispormi positivamente all'ascolto. Non sarà possibile ascoltare se la stazione non sta trasmettendo, ma entrambi gli atteggiamenti sono neces­sari se voglio ascoltare un programma. Esaminiamo ora ogni aspetto della nostra analogia con la radio, applicata alle tecniche di preghiera.
Dio, ovviamente, è Colui che trasmette, e il nostro cuore e la no­stra mente sono l'apparecchio ricevente. Come ce la caviamo nell'estraniarci da altri rumori che disturbano e nell'eliminarli? Come cioè, raggiungiamo la tranquillità? il primo punto che possiamo fis­sare è che raggiungere la pace è essenziale per la preghiera. Che la nostra analogia con la radio o la televisione sia applicabile alla pre­ghiera risulta chiaramente da un famoso passaggio del Primo Libro dei Re (19,11-13). Il profeta Elia ha destato l'ostilità della malva­gia regina Gezabele che minaccia di ucciderlo per le sue profezie. Impaurito e scoraggiato, egli si inoltra nel deserto per una giorna­ta di cammino e si sdraia per morire. Ma l'angelo del Signore lo nu­tre e lo guida sul Monte Oreb per parlare col Signore. Ci è detto che egli rimase sulla montagna ad aspettare.

«Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un ter­remoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero».
E questo mormorio era la voce del Signore. Elia sentì la paro­la salutare del Signore, ma solo quando riuscì ad ascoltare quel «mormorio leggero». Dio parla nel silenzio e solo quelli che han­no la pace del cuore possono ascoltare quanto Egli dice.È nel raggiungimento della pace, che le tecniche Yoga e Zen pos­sono essere di aiuto all'uomo di preghiera. Sono essenzialmente metodi antichi per allontanarsi dalle distrazioni della vita quotidiana e per raggiungere quello che Buddha chiamerebbe: «il centro fer­mo del mondo che gira» (La frase è usata da un eminente scrittore buddista contemporaneo, Christrmas Humphreys - Buddhismo, Roma, Ubaldini, 1999). Nel corso dei secoli, Yoga e Zen han­no sviluppato regole e procedure altamente specializzate, ma in fon­do basate sull'esperienza: tentativi dei santi uomini orientali di con­dividere con i loro discepoli i metodi che essi hanno ritenuto va­lidi per raggiungere la pace. Essi non sono fini a loro stessi e nep­pure sono dei metodi magici di un qualche tipo, ma sono mezzi che molti hanno trovato validi per il raggiungimento della vera pace del cuore; e possono essere utili per il cristiano e per il buddista.
Non sono comunque gli unici mezzi per raggiungere questa me­ta. Infatti, quando io stesso ho scoperto lo Yoga e ho tentato di pra­ticare alcuni esercizi di base, mi sono accorto che avevo già im­parato, o scoperto da solo, delle tecniche simili. Gli atti preparatori del vecchio schema di meditazione avevano uno scopo analogo, se esattamente capiti e praticati. Uno consisteva nello scegliere al­cuni momenti nei quali ricordare i temi della scrittura della preghiera del giorno; ricordare chi è Dio e chi sono io, e quale cosa meravi­gliosa sia che Dio possa parlare con me (l'analogia con l'entrare alla presenza di un re umano veniva spesso usata); «mettere se stes­si alla presenza di Dio con riverenza ed umiltà». Questi passi, adat­tati alle circostanze dell'individuo, costituiscono ancora dei mez­zi efficaci per raggiungere la pace attenta.
Allo stesso modo, la gente spesso mi domanda se è corretto camminare durante la preghiera. Sant'Ignazio menziona diver­se posizioni utili alla preghiera: seduti, in ginocchio, in piedi, ste­si proni o supini ma, significativamente, non cita il camminare.
Credo che la ragione sia che, camminare o passeggiare tran­quillamente possono essere dei mezzi molto utili per raggiungere la tranquillità e la pace attiva, ma sarebbero una distrazione quan­do siamo in pace alla presenza del Signore. Notate come due ami­ci che passeggiano insieme spesso si fermano e si guardano in fac­cia quando arrivano ad un punto di profonda condivisione. Il loro passeggiare crea, per così dire, lo stato d'animo per l'incontro. Anche della buona musica classica può essere uno strumento mol­to efficace in questo raggiungimento della pace e di uno spirito at­tento e concentrato.
Ho l'impressione che da qui abbiano avuto origine le giacula­torie come forma di preghiera. Come la preghiera di Gesù dell’ortodossia o il mantra dell'induismo e del buddhismo, la giaculatoria era una breve formula di preghiera ripetuta più volte. Questa ripetizione del­la stessa formula, lentamente e con calma, può essere un notevo­le aiuto per calmare lo spirito distratto. Ma il successivo accento sulle indulgenze per recitare le giaculatorie può aver oscurato il va­lore reale di queste brevi preghiere. Se ci preoccupiamo di contabilità soprannaturale, è il numero di tali preghiere dette che attira la nostra attenzione, piuttosto che il loro valore nel portarci in pa­ce davanti al Signore.
Persino la struttura ripetitiva del Rosario sembra essere egual­mente preziosa in questo senso: così il contenuto specifico delle pre­ghiere del Rosario (e questo vale anche per le giaculatorie o per la preghiera di Gesù) non risulterebbe così importanti. Questo mo­do di pregare diventerebbe invece, essenzialmente, un aiuto nel rag­giungimento di uno spirito devoto e di un cuore tranquillo e attento.
Ho scoperto che l'ufficio divino è utile al raggiungimento dello stesso fine. Spesso la gente mi domanda come dargli più sen­so: sembra che trovi nella struttura familiare e nelle frasi ripetiti­ve una fonte di noia e di monotonia, piuttosto che un aiuto alla de­vozione. Comunque, se l'ufficio è visto essenzialmente come un modo per raggiungere la pace davanti a Dio, per farci ricordare il Suo amore e la Sua provvidenza in alcuni momenti cardine della giornata, piuttosto che una fonte di nuove idee su Dio e sul Suo spa­zio nella nostra vita, allora, forse, la ripetizione di frasi familiari può essere vista sotto una nuova e più proficua luce.
I mezzi che ho suggerito, cioè le giaculatorie, il Rosario e, specialmente, l'ufficio divino, sono già propriamente delle preghiere, poiché comportano il raggiungimento della pace davanti o alla pre­senza di Dio. Santa Teresa usò questo aspetto della preghiera vocale per raggiungere la pace alla presenza del Signore,la preghiera del raccoglimento.
Altre semplici pratiche, sebbene non esplicitamen­te preghiere nello stesso senso, possono essere d'aiuto nel portarci alla tranquillità e nell'aprirci a Dio. Per esempio, gli psicologi suggeriscono di concentrarci sul nostro stesso corpo: prima sul no­stro piede destro, «pensando» gradualmente al nostro alluce in uno stato rilassato poi alle altre dita singolarmente, poi al collo del pie­de, alla caviglia, al polpaccio, alla coscia e così via fino a quando tutto il corpo sia rilassato. Ho tentato questo metodo con vari gruppi e siamo rimasti felicemente sorpresi di quanto possa aiu­tare. Un importante vantaggio collaterale è che spesso esso ci rivela dov'è la nostra vera tensione o la nostra inquietudine. La gente diceva: «Sono completamente rilassato, eccetto la bocca», o «... eccetto un pezzo di fronte tra gli occhi». E’ un ottimo rive­latore della sorgente della nostra ansietà; quando ce ne rendiamo conto, possiamo cominciare a lavorare in modo concentrato, ma tranquillo, per superarla.
Un altro esercizio, che ho scoperto per me stesso e che ho tro­vato molto utile è il seguente: andare in un luogo dove si abbia una veduta panoramica della natura, e dove si possa lasciar errare lo sguardo sull'intero scenario (per esempio, il lato di una collina che domina una foresta). Mi piace molto, perché mi permette di vagare con lo sguardo sulla scena senza premura e senza alcuna fatica per sforzare la concentrazione. Gradatamente una parte del bosco at­tira la mia attenzione, e poi un albero, ed eventualmente un ramo di un albero. I miei pensieri sparsi si concentrano su un'unica esperienza e poi si immergono sempre più profondamente solo in quella realtà (l'universo in un filo d'erba). Spesso il risultato è che la mia attenzione è assorbita da qualche piccolo fiore o da qualche foglia ai miei piedi che non avevo notato prima, e sono nella pace!
Abbiamo trattato varie tecniche per raggiungere una pace attenta davanti al Signore. Non tutte sono proprio preghiere - cioè un incontro personale con Dio nell'amore - ma sono normali prerequisiti per la preghiera. Lo sforzo per arrivare alla pace spesso può esse­re lo sforzo principale per il principiante. Oggi in particolare, che viviamo in un mondo dispersivo e distratto, il solo raggiungi­mento della tranquillità può essere la maggior impresa. Allo stes­so tempo è importante rendersi conto che, almeno per il cristiano, questo è l'unico passo preliminare. Appena cresciamo e maturia­mo nella preghiera saremo in grado di raggiungere la pace più ve­locemente e più facilmente. Infatti, se siamo costanti nella preghiera, scopriremo che la tranquillità è una cosa naturale, lo stato nel quale ci troviamo più a nostro agio. Ciò richiede tempo ed è pos­sibile che il principiante si debba sforzare parecchio in questo senso, ma è importante ricordare che è l'unico inizio.
Lo sforzo per arrivare alla pace non è preghiera. Verrà il mo­mento in cui colui che contempla dovrà chiudere gli occhi, la mu­sica di sottofondo dovrà essere spenta, anche il vagabondo dovrà sedersi e il devoto di giaculatorie dovrà stare zitto, cioè il tempo del «Fermatevi e sappiate che io sono Dio» (Sal 46,11).



Tratto da: Thomas H. Green, APRIRSI A DIO - Una guida alla preghiera - ed. ADP a cui rimandiamo per le note e l'approfondimento.

quinta-feira, 13 de setembro de 2012

ORAÇÃO CONTÍNUA E ARREPENDIMENTO: UMA PEQUENA REFLEXÃO

 

« O SENTIDO DA ORAÇÃO DO CORAÇÃO »

1. Orai sem cessar

O problema que tem desafiado a Espiritualidade Oriental se resume nesta interrogação: Como orar sem cessar? Como ser não somente um homem que participa a cada Domingo da Eucaristia, mas ser um homem eucarístico, segundo o preceito Paulino citado anteriormente? Não somente um homem que santifica o tempo orando segundo um símbolo solar, num ciclo do dia e da noite, nas principais "horas" da jornada, senão um "homem litúrgico" capaz de santificar cada instante.
Os grupos de monges "acématas" se sucediam no coro para que a salmodia não se interrompesse jamais. Isto, porém, não constituía uma solução pessoal.
Uma boa resposta é fazer tudo com sentimento da presença de Deus, sob seu olhar, com gratidão para com Ele e atenção para com próximo. "Em todo pensamento e ação pela qual a alma rende culto a Deus, ela está com Deus", disse Macário - o Grande. A oração incessante, segundo São Máximo - o Confessor, "é ter o espírito aplicado em Deus, numa grande reverência e num grande amor... contar com Deus em todas as nossas ações e em tudo o que nos sucede."
Um dos interlocutores do Peregrino Russo explica-lhe que a oração interior é a celebração mesma do universo e da vida, o impulso que leva todas as coisas à plenitude e à beleza, e que corresponde ao homem desvelar esse universal gemido do Espírito. Tenho escutado o Padre Dimitrius Staniloaé responder à mesma pergunta que é necessário receber o mundo como um dom de Deus, e que nós, em uníssono, restituímos-lhe imprimindo nele o sinal de nosso amor criador.
Tudo isto é verdade, tudo é importante. Porém, se não se quer permanecer nas boas intenções, nas profundas, porém passageiras intuições, é necessário um instrumento que permita pôr tudo isto em prática. Tal instrumento é a "Oração de Jesus".
"No Vigésimo Domingo depois da Trindade", escreve o Peregrino, "entrei na Igreja para orar. Lia-se a passagem da Epístola aos Tessalonicenses onde se diz: 'orai sem cessar'. Essas palavras penetraram profundamente em meu espírito, e me perguntei como é possível orar sem cessar, quando cada um tem que ocupar-se de determinados trabalhos para subsistir?" Então pôs-se a caminho, começou sua peregrinação.
Todo destino cristão é uma peregrinação para "o lugar do coração" - de onde o Senhor nos espera e para onde nos atrai. Os caminhos seguidos no espaço não fazem mais que expressar, que facilitar, por meio dos encontros e irradiações, as intercessões para que encontremos ali, este caminho interior. Busca-se ao homem, aos homens, que nos darão as "palavras de vida", que nos despertarão ao que nos é mais interior, tão próximo e, não obstante, tão distante. O Peregrino Russo busca incansavelmente, recebe respostas parciais, encontra muitas pessoas que o fazem avançar em si mesmo, até o "coração consciente", mas não recebe uma resposta decisiva até que descobre um "Starets", isto é, um "Ancião", no sentido espiritual da palavra.
[...]
O Peregrino encontrou um desses Anciãos. "Entramos em sua cela e me dirigiu as seguintes palavras: A oração de Jesus, interior e constante, é a invocação contínua e ininterrupta do Nome de Jesus, por meio dos lábios, do coração e da inteligência, no sentimento de sua presença em todo lugar e em todo tempo, inclusive durante o sono. Ela é expressa por estas palavras: 'Senhor Jesus Cristo, tem piedade de mim'. Aquele que se habitua a esta invocação recebe um grande consolo e recebe também a necessidade de dizê-la sempre. Ao final de algum tempo, já não poderá viver sem ela e, por si mesma, ela brotará nele, não importa onde, não importa quando.”
O "Senhor Jesus Cristo", ou "Senhor Jesus Cristo, Filho de Deus" - diz-se sobre a inspiração. O "tem piedade de mim" ou, as vezes "tem piedade de mim, pecador" - é dito sobre a expiração. Isto se faz com abandono, por amor.
Na Tradição Beneditina antiga empregava-se, da mesma maneira, as palavras de um Salmo: "Senhor, vem em minha ajuda, apressa-te em me socorrer". A Igreja antiga utilizou muito, para orar, o "Senhor, tem piedade", "Kyrie Eleison" (o sentido é mais rico que o da piedade; implica também doçura, ternura, misericórdia...)
Hoje mesmo, no Ofício Monástico e Paroquial Ortodoxo, recita-se quarenta vezes seguidas o "Kyrie Eleison". Esta última fórmula convém melhor para os iniciantes, os penitentes. É necessária já uma certa familiaridade com a oração para introduzir nela o nome de Jesus. Não existe, porém, regras. A penitência como veremos, dura até a morte. E o mistério da Cruz e a descida de Cristo aos infernos permite desde o começo, a audácia do amor.

2. O Estado Metânico

O caminho para o "lugar do coração" implica três grandes etapas que, mais que se reunir, sucedem-se uma à outra. A primeira é a “metanóia”, o arrependimento. A segunda é a unificação extática do homem no crisol da Graça. A terceira é a participação na luz "tabórica", nas Energias Divinas, graças ao encontro pessoal com Cristo, diante do Pai, no Reino do Espírito. Esta luz é já a da Nova Jerusalém. Cada vez que um homem se abre a esta luz, termina para ele este mundo e já tem início o mundo novo. Os monges estão chamados a saturar a Criação de “Parusia” e a acender a fogueira na madeira morta das coisas.
Tudo o que nós, os leigos, podemos fazer de verdadeiro, de bom e de belo na sociedade e na cultura, tomará lugar no Reino, graças a esta brecha escatológica que eles abrem, que eles constituem.
A primeira etapa - e base das outras duas - é, por conseguinte, a etapa do arrependimento, a práxis, a ação ascética. Para o Oriente Cristão que não gosta da oposição e que permanece pudico e quase secreto, nos confins da vida espiritual não existe oposição entre a ação e a contemplação. A ação suprema é a obra da oração. Quem se dedica à práxis ascética é o único verdadeiramente ativo. As obras, "ações" humanas, são muitas, freqüentemente, o resultado gesticulante de uma grande passividade interior, de uma submissão inconsciente às paixões individuais ou coletivas.
"O arrependimento" - disse Santo Isaac, o Sírio - "convém sempre e a todos, ao pecador como ao justo." E acrescenta: "Até o momento da morte, o arrependimento não terá terminado em sua duração nem em suas obras." Os maiores ascetas, como Sisoés, o Grande, afirmaram em seu leito de morte: "Não tenho consciência de ter começado a me arrepender". Os monges, sabendo que Sisoés estava gravemente doente, reuniram-se em torno de sua cabeceira para obter dele uma última mensagem. Não obtiveram outra, esta, porém, era a decisiva.
Nesta atitude de arrependimento, a oração de Jesus é essencialmente a do Publicano do Evangelho: "Senhor, tem piedade de mim, pecador". Diz-se-a freqüentemente - quando se é possível, longe de todo olhar - com grandes ou pequenas prostrações, que se chamam de "metânias " (é a mesma palavra que significa arrependimento).
Esse arrependimento tem um sentido profundamente pessoal e ontológico, antes que moral. Metanóia vem de "Meta" que sinaliza uma mudança e de "noeo" que significa nossa apreensão, individual ou coletiva, do real. A consciência, quando separada do coração, está abandonada aos impulsos da natureza e às hipnoses da cultura. Não cessa de projetar sobre a criação de Deus, ontologicamente boa (como diz o Gênesis: "E Deus viu que tudo era bom"), o que os espirituais chamam de "uma teia de aranha" um "sonho", uma quimera, fazendo-se assim cúmplice dos artifícios do "pai do engano". Aqui, inclusive, é necessário entender "engano" no sentido pessoal e ontológico, ou melhor, "anontológico"; a liberdade sublevada, descarrilada, assegurando ao nada uma espécie de existência paradoxal: "Sereis iguais a deuses"; sem Deus, o homem chegará a ser pequeno deus de si mesmo e do mundo, será rei sem ter necessidade de ser sacerdote e de oferecer o mundo em eucaristia. É a si mesmo que oferecerá ao mundo! Em nossa civilização que se precipita para o domínio do mundo, porém, que segundo a expressão de Michel Serres, ignora "o domínio do domínio". Quanta necessidade temos de homens que aceitem ser humildemente os sacerdotes do mundo, humilde e realmente como os monges.
Por outro lado, em nossa época, a asfixia espiritual do homem se inscreve maciçamente na História. Seguramente, na história política, onde se coloca a sede do absoluto de tantos seres cuja vida não tem outro sentido em meio a desintegração da matéria e a destruição do que os cerca.
Diz Santo Isaac, o Sírio: "Este mundo, não é o mundo de Deus, senão a ilusão dos homens. Este mundo é uma expressão que engloba aquilo que chamamos de as paixões". As "paixões" no sentido ascético são a desnaturalização desse impulso de adoração que constitui a natureza profunda do homem. Se esse impulso não encontrar em Deus seu cumprimento, irá devastar as realidades contingentes, idolatrando-as e odiando-as simultaneamente, pois espera a revelação do Absoluto que elas não poderiam aportar (de forma duradoura ao menos, pois tudo tem sabor de absoluto, porém para ser salvo, não para salvar.)
O homem quer esperar tudo de uma nação, de uma ideologia, da arte, do amor humano. Quer esquecer o nada que atualmente o submerge por inteiro, ampliando sua prisão pela vontade de poder, por uma ternura desesperada, as drogas, as técnicas de êxtases. Desloca-se furiosamente na imanência, mudando da terra prometida, terminando por gritar: viva a morte! Desdobrando-se, desagregando-se, num jogo fatal de espelhos, até que surja como nas novelas de Dostoievsky, o "alter ego diabólico", o "duplo luciferino". O homem se converte em idólatra de si mesmo, diz Santo André de Creta, em seu Cânon Penitencial: e no fundo desta idolatria, está o ódio de si, a nostalgia do aniquilamento, a vertigem "gelada" do suicida. É o que Máximo, o Confessor, chama de a "Philautia", "Princípio e Mãe" de todas as paixões. Que é, traduz Vladimir Lossky, "ipseité" luciferina, [...] curvatura do mundo ao seu redor, dilatação da própria finitude na imanência, até que o ódio e a morte tenham a última palavra, ciclos sem fim de desejo, ou "Eros" ligado em parte com"Thanatos". Impulso de ser que faz surgir o nada. Título banal da crônica judiciária: "Amava-a tanto e a assassinei".
A metanóia é a revolução "copernicana" que faz com que o mundo gire, não já ao redor de mim e do nada, senão de Deus Amor, de Deus feito Homem, que me pede, que me permite "amar ao próximo como a mim mesmo". A metanóia me faz tomar consciência das ramificações da árvore do nada, em minha própria vida, como na história torta dos homens. Não se trata de uma "culpabilização” mórbida em torno de uma concepção farisaica do pecado, senão de uma tomada de consciência desse estado de separação de vida "morta", de exacerbação do nada, estado no qual somos realmente "culpáveis por tudo e por todos". Compreendo então o que tem sido, em todo o seu alcance, por longo tempo insuspeitado, meus verdadeiros pecados. Então também, como vemos no destino dos grandes monges, o arrependimento precede o pecado, um pecado que, provavelmente, não será cometido materialmente, jamais. Pensai nas palavras de Cristo quando se lhe leva a mulher surpreendida em flagrante delito de adultério, a quem a Lei ordena apedrejar: "Que aqueles que jamais pecaram atirem a primeira pedra". E todos se afastaram.
Cristo recordou simplesmente, a universalidade desse estado de separação que se encontrava de algum modo concentrado no destino dessa mulher. O verdadeiro monge é aquele que toma a consciência desse estado no que "todos são culpáveis por todos". Desaloja as potências "deífugas", o "duplo demoníaco": dali, as visões demoníacas que encontramos nos antigos relatos. O espiritual obriga aos demônios a objetivarem-se, a fazerem-se exteriores (o que eles são realmente desde que a graça do Batismo os tirou do abismo do coração) os esmaga pela força de Cristo vencedor de seu "príncipe", de seu principio, triunfador sobre o inferno e a morte.
Não se tem sublinhado suficientemente que a aproximação apofática do mistério, no Oriente Cristão, é uma aproximação "metânica". Se tomais os maiores textos da Teologia apofática, por exemplo, as Homilias sobre a Incompreensibilidade de Deus, de São João Crisóstomo, ou os capítulos gnósticos de São Maximo, o Confessor, vereis que a exigência de adorar ao Deus Vivente, sempre mais além, "Hypertheós", mais além das imagens, dos conceitos, dos nomes, mais além inclusive da Palavra Deus, tal exigência se acompanha infalivelmente com um chamado ao arrependimento. Somente o temor, o tremor, a morte ante si mesmo, [...] podem permitir voltar nossa inteligência para o Inacessível.
Esse "estado metanóico" se converte necessariamente, em "recordação da morte", no forte sentido de uma "anamnésia". "Salvemo-nos sem cessar, tanto quanto possível, da morte", escreve Hesiquio de Batos que comenta: "Tal recordação entranha a exclusão de toda vã preocupação. O cuidado do espírito e a oração constante, o desprendimento do corpo, o ódio ao pecado; em verdade, toda virtude ativa nasce dela. Pratiquemo-la, tanto quanto possível, tal como respiramos.”
A lembrança da morte não é a da morte biológica em si (pois esta é também uma misericórdia de Deus), senão o estado espiritual que a morte biológica simboliza e sela (e a qual também põe fim). Essa recordação da morte é descobrir que se está, desde agora, na morte; que nossa existência é uma "vida morta" (a expressão é de São Gregório de Nissa) com uma dimensão infernal. O grande "duelo" dos monges no Oriente Cristão está ligado a uma Teologia experimental da queda. O Starets Silvano escreveu admiráveis "lamentações de Adão", ante o inacessível Paraíso. Se examinarmos a arte e a literatura de nossa época, temos a impressão de uma análoga lamentação que não se quer reconhecer, lamento desgarrante do niilismo, atravessado por um riso de zombaria e por vãs fugas.
A investigação de nossa época sonda o nada desde a perspectiva do nada, enquanto que, a recordação ascética da morte, não somente faz lugar a Deus senão que se converte em recordação da ressurreição.
A Teologia apofática não exige somente um estado metânico. Culmina na grande antinomia apofática, e esta se inscreve numa práxis de ressurreição. Deus, mais além de Deus, se revela como o Crucificado; e o Crucificado triunfa sobre a morte e o inferno. A separação entre Deus e o homem se identifica misteriosamente com a ferida do lado aberto pela lança, donde brotaram água e sangue, o Batismo, a Eucaristia, a Igreja. A Igreja é a noite que se faz luminosa.
O abismo infernal entre o criado e o incriado se converte, em Cristo, em união bem-aventurada do criado e do incriado, a Divino-Humanidade. Do lado traspassado de Deus Crucificado se levanta a aurora do Espírito. Doravante, em Cristo, o espaço da morte se converte em espaço do Espírito, a densidade da angústia em densidade da Fé; e pela Fé, a Luz Divina invade o homem.
Assim, a memória da morte se transforma em "memória de Deus", em memória do Deus que se deixa apreender pela morte para consumi-la e oferecer-nos a ressurreição. Se os monges do Oriente insistem tanto sobre o duelo e a consciência do estado de morte, não é pra fechar-se nela, senão para encontrar nela Cristo, para ressuscitar com ele.
Seria necessário aqui todo um tratado dos vícios e das virtudes, não no sentido moral, senão no sentido ascético, que procura através da livre Fé do homem as modalidades de sua participação nas Energias Divinas. Toda "virtude", com efeito, é a manifestação humana de um atributo Divino e constitui, analogicamente, diz São Maximo, o Confessor, um aspecto de desvelamento escatológico do Verbo Encarnado. Fico feliz em recordar e comentar brevemente a oração de Santo Efrén - o Sírio, muitas vezes recitada durante os ofícios da Quaresma:
"Senhor e Mestre da minha vida"
Esta oração, essencialmente penitencial (e que se diz com três grandes metanias) começa pela afirmação da transcendência do Deus pessoal, do Deus Vivente, em uma atitude de Fé. A Fé é o ponto de partida da escada das virtudes, da qual a Esperança designa o movimento ascensional, que culmina no Amor. Deus é Deus, eu só existo por sua vontade; Ele é a fonte de minha vida:
"afasta de mim o espírito de preguiça, de abatimento,
de dominação e de vã loquacidade"
Este pedido enumera os "vícios" maiores, cuja raiz e princípio é justamente a "preguiça". A palavra significa o esquecimento levado até um verdadeiro sonambulismo, a opacidade, a insensibilidade ante o mistério, o que a Filocalia, com o Evangelho, denomina a "dureza do coração" (e, muitas vezes seu "peso"). Esse estado de insensibilidade espiritual engendra o "abatimento"; no limite o desgosto de viver, a desesperança, o abandono ao vazio, todas manifestações de um niilismo que alcança em nossa época a importância de um fenômeno histórico: época, de crianças mimadas que querem tudo imediatamente e que, rapidamente, se desencantam e se abandonam à vertigem do nada.
As "vã loquacidade" designa, não só na vida cotidiana, as palavras que "coisificam" o outro e o fazem infinitamente distante, - definitivamente tarefa de assassino - senão mais largamente, todo exercício do pensamento e da imaginação que se subtrai das forças do coração e que se converte em um jogo autônomo da vontade de poder, ou dos fantasmas.
"mas, concede a mim , teu servo, um espírito de castidade,
de humildade, de paciência e de amor."
Eis aqui o movimento das virtudes; a Fé, fundamento, é recordada em primeiro lugar: o homem é um "servidor". A "castidade-integridade" sintetiza o conjunto: ela evoca a unificação da existência no reencontro com o Deus Vivente e com o próximo, a subida na Fé, na Esperança e no Amor, tanto da inteligência como de toda outra força vital.
A humildade é a inscrição concreta da Fé no cotidiano, a expressão da revolução copernicana que nos arranca à "philautia" para devolver a Deus sua distância e sua proximidade. Para os Padres népticos, é a virtude fundamental, propriamente evangélica, a atitude que distingue o Publicano (cujas palavras são retomadas na "Oração de Jesus") do Fariseu, infinitamente virtuoso, porém tão pouco sensível à Graça, à gratuidade da salvação.
São João Clímaco recorda vigorosamente esta força paradoxal da debilidade: "Não jejuei, não velei, não tenho orado, não tenho descansado sobre o solo, porém me humilhei e o Senhor me salvou".
Da Fé e da Humildade nasce a Paciência. A Paciência é a Humildade em ato.
Tal como esta (a Humildade) expressa a Fé, da mesma forma, a Paciência está animada pela Esperança. É o contrário do abatimento, que provém do desejo de ter tudo imediatamente. É a gratidão pelas migalhas que caem da mesa do festim messiânico. É, sobretudo, uma confiança total quando Deus se retira, quando seus caminhos parecem incompreensíveis. Os Padres invocaram muitas vezes "a Paciência de Jó". Jó retira, recusa, os arrazoamentos teológicos, porém, uma vez tendo contestado Deus, não o nega, permanece com Ele, sabe que alguém o busca através da experiência mesma do mal radical.
Aquele que ama, "dá sua vida por seus amigos". Não busca o domínio, senão o serviço. Esvaziando-se de si mesmo para deixar lugar para Deus, abre-se ao outro, recebe sem julgar, discerne a pessoa mais além de seus "personagens" que ele exorciza em silêncio. Faz brilhar a verdadeira vida.
"Sim, meu Senhor e Rei, concede-me ver meus próprios pecados e não julgar o meu irmão, pois Tu és bendito pelos séculos dos séculos. Amém."
O último pedido que fecha a oração sobre uma bênção, recorda as condições do amor: "ver meus pecados" e "não julgar". "Ver meus pecados" faz entrar na exortação primeira do Evangelho: "Arrependei-vos, pois o Reino de Deus está próximo". O homem toma a medida de sua separação e de seu orgulho. Abre-se à alegria do Reino. Doravante, já não tem outro espaço para existir, senão na misericórdia de Deus. "É mais difícil ver os próprios pecados do que ressuscitar mortos", dizem os Padres nepticos. Em verdade, ver os próprios pecados é entrar na ressurreição dos mortos. Por ali se chega a ser aquele que é capaz de receber o outro como a um irmão, sem julgá-lo. Devo tudo a Deus - para parafrasear uma petição do Pai-Nosso - e o outro nada me deve, tudo é graça; ele mesmo é graça, ele é meu irmão, eu não o julgo; sou julgado e a Cruz é o Juiz do juiz e o "Senhor é bendito pelos séculos dos séculos".
A Oração de Santo Efrém resume o jejum: que não é só de alimento para o corpo, mas também das imagens (e isto não é fácil em nossa "civilização de espetáculo), das paixões, do desejo de dominar e de julgar os outros.
Através desta sobriedade de todo o ser, pela qual o homem aprende a viver, não dos alimentos da imanência (físicos, porém, também psíquicos) senão de "toda a palavra que brote da boca de Deus", não é um masoquismo mórbido o que se instaura, senão uma real liberdade: "Sê rei em teu coração; reina com altura, porém com humildade [...]

(Extraído de uma Conferência realizada por Olivier Clèment, teólogo ortodoxo, aos monges da Abadia de Tamie -Saboya, em 29 de maio de 1970)
 

Hesicasmo e a Oração de Jesus

Hesicasmo e a Oração de Jesus
Extraído de: M. Brunini: «La preghiera del cuore nella spiritualità orientale», ed. Messaggero - Padova, texto de referência em âmbito católico a quantos se aproximam pela primeira vez ao estudo do hesicasmo e da oração do coração.

Introdução

comunidade apostólica, retomando uma tradição vétero-testamentária, dedicou, desde o início, uma atenção toda particular Ao Nome que o Filho de Deus assumiu no momento da Sua encarnação: JESUS, que significa É SALVAÇÃO. Além disso, três textos colocam em evidência a veneração da Igreja primitiva para com o nome de Jesus: Fl 2, 9-10 At 4, 10-12 Jo 16, 23-24.
Todavia, a Oração do Coração, enraizada no Novo Testamento, foi assumida por uma corrente própria da espiritualidade oriental antiga que foi chamada de hesicasmo. O nome provém do grego hesychìa que significa: calma, paz, tranqüilidade, ausência de preocupação.
O hesicasmo pode ser definido como um sistema espiritual de orientação essencialmente contemplativa que busca a perfeição (deificação) do homem na união com Deus através da oração incessante.
Todavia, o que caracteriza tal movimento é, seguramente, a afirmação da excelência ou da necessidade da própria hesiquía, da quietude, para chegar à paz com Deus. Num documento do mosteiro de Iviron do Monte Athos, lê-se esta definição:
«O hesicasta é aquele que só fala com Deus somente e reza sem cessar.»
Os hesicastas, inserindo-se na tradição bíblica, exprimirão a experiência da oração contemplativa através da invocação e da atenção do coração ao Nome de Jesus, para caminharem na Sua presença, serem libertados de todo pecado e permanecerem no suave repouso de Deus à escuta da Sua palavra silenciosa.
A história do hesicasmo começa com os monges do deserto do Egito e de Gaza. «A nós, pequenos e fracos, não nos resta outra coisa senão refugiar-nos no Nome de Jesus», disse um deles. Depois, se firma com o mosteiro do Sinai, com São João Clímaco. Um expoente máximo é, seguramente, Simeão, o novo Teólogo. Renascerá no Monte Athos no século XIV.

A vocação para a Hesiquía

O termo grego hesychìa é traduzido em latim por quies, pax, tranqüillitas, silentium. Em geral, hesiquia significa quietude, mas pode também querer exprimir a paz profunda do coração. A etimologia é incerta: talvez o verbo da qual deriva - hèsthai, significa estar sentado.
Na literatura monástica, hesiquía revela no mínimo dois significados. Antes de tudo, tranqüilidade, quietude e paz, como estado de alma e condição estável do coração necessária para a contemplação. Significa ainda desapego do mundo na dupla acepção de solidão e silêncio.
A hesiquia expressa na paz, quietude, solidão e silêncio interior, que se consegue através da solidão e do silêncio exterior, se apresenta, todavia, como um meio excelente para se conseguir o fim da união com Deus na contemplação, através da oração contínua. Enquanto meio e não fim, a hesiquia distingue-se, quer seja da apàtheià dos Estoicos, entendida como ausência e liberação das quatro paixões fundamentais: a tristeza, o medo, o desejo e o prazer; quer seja da ataraxia dos Epicureus, que consiste na libertação da alma das preocupações da vida. Estes movimentos filosóficos sublinham e buscam a paz e a quietude da alma, somente como fim último e não como meio para uma plenitude de vida que somente Deus pode conceder.
Na literatura monástica, ao contrário, e em particular junto aos Padres do deserto, a hesiquia mantém sempre um colorido de meio e não de fim. Esta é um meio excelente, um caminho de amor autêntico, vivido no silêncio e na solidão com o fim de se chegar à oração verdadeira e autêntica contemplação. A hesiquia, em resumo, é o comportamento de quem, no próprio coração se põe na presença de Deus.
Para compreender os vários aspectos da hesiquia que o monge é chamado a exprimir, podemos nos referir à vida do abade Arsênio, o pai dos anacoretas. Eis como é contada a sua vocação à hesiquia:
Aba Arsênio, quando ainda morava no palácio imperial, orou a Deus com estas palavras: «Senhor, mostra-me o caminho que conduz à salvação». E uma voz se dirigiu a ele e lhe disse: «Arsênio, foge dos homens e serás salvo». O mesmo, já anacoreta, na sua condição de eremita, de novo dirige a Deus a mesma oração e ouviu uma voz que lhe disse: «Arsênio, foge (do mundo), permanece em silêncio e descanse na paz (hesiquia)». É destas raízes que nasce a possibilidade de não pecar. (Arsênio, 1.2).
Esta última frase está na origem da vocação dos hesicastas: «Foge, cala, repousa!» A fuga do mundo, o silêncio e a paz interior são os três comportamentos que dão forma ao estado de vida do monge, particularmente, do anacoreta.

«FOGE»: hesiquía como solidão

O autêntico monge é chamado a viver, antes de tudo, a solidão. Os Padres do deserto sublinham com muita força a fuga dos homens, isto é, a necessidade de reduzir ao mínimo o contato com eles. Conta-se a propósito:
«O beato arcebispo Teófilo dirigiu-se uma vez ao Abade Arsênio em companhia de um magistrado. Pediu ao ancião ouvisse dele uma palavra. Após um instante de silêncio, ele lhes respondeu: ' E se a disser, a observareis?' Prometeram fazê-lo. Disse-lhes o ancião: 'Então, saibam que , onde estiver Arsênio, não vos aproximeis dele'» (Arsênio, 7).
O abade Marcos disse ao Abade Arsênio: «Por que fugis de nós?"» O ancião lhe disse: «Deus sabe que eu vos amo. Mas, não posso estar ao mesmo tempo com Deus e com os homens. Os anjos do céu, que são milhares, têm uma única vontade, enquanto os homens têm muitas. Por isso, não posso deixar Deus para estar com os homens» (Arsênio, 13).
Alguns contatos discretos com o mundo podem ser também vantajosos. Todavia, somente para aqueles monges que conquistaram uma grande maturidade espiritual e aos quais é ordenado expressamente por Deus. Mas, em geral, o monge é convidado a garantir para si uma zona de calma, de silêncio, de solidão, para receber a formação da parte de Deus e habituar-se à Sua silenciosa presença.
A hesiquia como solidão não quer dizer somente fuga do mundo, mas quer dizer também uma certa estabilidade num determinado lugar solitário. Esta exigência é expressa com uma famosa fórmula que, mais tarde, tornou-se tradicional: «Permanece na tua cela, permanece no teu eremitério, e ela te ensinará tudo» (Moisés, 6). «Ensinará tudo» é a mesma frase que encontramos na boca de Jesus quando preanuncia a vinda do Espírito Santo (Jo 14, 26). Permanecer na solidão da cela é ainda abertura ao Espírito, ao Seu fogo e à Sua luz.
O abade Macário, o Egípcio, conjuga a fuga dos homens e a permanência na cela: «O abade Isaías pediu ao Abade Macário: 'Diga-me uma palavra'. E o ancião lhe disse: 'Foge dos homens!' E o abade Isaías lhe disse: 'O que significa fugir dos homens?' E o ancião lhe diz: 'Significa permanecer na tua cela e chorar os teus pecados' (Macário E, 27). E, dirigindo-se ao abade Aio, lhe dirá: 'Foge dos homens, permanece na tua cela a chorar os teus pecados, e não ames a conversação com os homens e te salvarás'» (Macário E, 41).
De fato, a cela é o ambiente para a hesiquía, dirá o próprio Antão, o Grande: «Como os peixes morrem se permanecem sobre a terra seca, assim os monges que se demoram fora da cela ou se entretém com o povo perdem a força necessária à hesiquía. Portanto, como o peixe para o mar, assim nós devemos correr para a cela para que não aconteça que, tardando-se fora, esqueçamo-nos de guardar o interior» (Antão, 10).
A solidão pode exprimir-se também num comportamento de contínua peregrinação de um lugar para o outro. De fato, todo lugar deve ser estranho ao monge. Uma tal estranheza - xenitèia - indica uma espécie de exílio voluntário longe das coisas mundanas. Afirma São Nilo: «O primeiro dos grandes combates consiste na xenitèia, isto é, no emigrar sozinho, despojando-se como um atleta, da própria pátria, da própria raça, dos próprios bens.»
O passar de um lugar ao outro é imitar o caminho de Jesus, como demonstra a seguinte historinha:
«Do abade Agatão, contavam que empregou muito tempo junto aos seus discípulos. Para construir uma cela. Quando a terminou, começaram a morar nela, mas, já na primeira semana, viu alguma coisa que não o agradou e disse aos seus discípulos: 'Levantai-vos, vamo-nos daqui!' (Jo 1, 31). Eles ficaram muito perturbados e disseram: 'Se tinhas a intenção de ir embora, por que nos cansamos tanto para construir a cela? As pessoas se escandalizarão de novo e dirão: 'Estes instáveis partem novamente!'' Vendo-os assim abatidos, ele lhes disse: 'Mesmo que alguns se escandalizem, outros, por sua vez, serão edificados e dirão: Bem-aventurados aqueles que, por amor a Deus, se foram, desprezando tudo. Portanto, quem quiser vir, venha! Eu agora me vou'. Então, jogaram-se por terra, rogando que lhes permitisse partir com ele» (Agatão, 6; cf. também Amoés, 5).
Estes últimos apoftegmas nos permitem sublinhar o aspecto itinerante da hesiquia. Certamente, a cela é importante; mas, não se pode permanecer nela com o espírito de proprietário. O monge sabe ser estrangeiro sobre esta terra e, assim, abandona tudo o que possa desviá-lo do serviço de Deus, vivendo no escondimento e na espera, aguardando ardentemente o retorno do Senhor glorioso. A solidão exterior é certamente importante, mas, mais necessária, é a solidão do coração. Aqui se encontra a autêntica hesiquía, ou o verdadeiro eremitismo, ou a anacorese interior, o monaquismo do coração, o único que pode conduzir à Oração de Jesus.

«CALA»: hesiquía como silêncio

Na solidão, o monge é chamado a viver o silêncio. A voz que Arsênio ouviu era, de fato, expressa nos termos que sabemos: «foge, cala, repousa.» O silêncio que vivem os Padres do deserto, como justamente foi dito, «é um silêncio dos mil nomes e dos mil rostos onde tudo está no seu lugar. É um silêncio precioso para a alma, um silêncio que faz parte da transcendência.
Dos vários apoftegmas decorre que o silêncio dos Padres do deserto é o silêncio da humildade, do calar-se sobre si mesmo, é o silêncio que tira as palavras ao egoísmo, à soberba, ao amor próprio; é o silêncio de quem se faz peregrino e estrangeiro, mas é também o silêncio do amor, o silêncio de quem não julga o próximo, de quem não fala ou murmura dos outros, enfim, é o silêncio da fé, de quem se confia no Totalmente Outro, de quem se colocou completamente nas Suas mãos.»
Consideremos algumas particularidades deste grande silêncio. A oração incessante é o problema prático fundamental que foi muito debatido nos primeiros séculos cristãos. Os monges tinham o dever de praticar esta ordem da Escritura, mais do que todos os outros cristãos. O seu amor pelo silêncio é, sem dúvida, a forma, o clima e a dialética mesma da oração ininterrupta. O silêncio é como uma cela e uma espécie de eremitério portátil do qual o homem de oração não sairá nunca, mesmo quando, por motivos de caridade, deverá sair da sua cela visível. Afirma o grande Poemén: «Se estiveres em silêncio, obterás o repouso em qualquer lugar que habitares.» (Poemén, 84)
Guardar o silêncio quando se apresenta a ocasião de falar, é a verdadeira fuga dos homens: «Dominar a própria língua: eis a verdadeira xenitèia», afirma o abade Titoes (ve D 84). «O aba João era fervoroso no Espírito. Alguém veio visitá-lo e louvou o seu trabalho. Estava trabalhando com corda e permaneceu em silêncio. Tentou uma segunda vez fazê-lo falar, mas ele continuava calado. Pela terceira vez, disse ao visitante: 'Desde quando veio, você afastou Deus de mim”» (Jo, 32).
«Em Cétia o grande abade Macário, quando se dissolvia a assembléia, dizia: 'Fugi, irmãos!' Um dos anciãos lhe perguntou: 'Para onde podemos fugir além deste deserto?' Ele punha o dedo sobre a boca dizendo: 'Fugi disto!' e entrava na sua cela, fechava a porta e se sentava (punha-se em hesiquía)» (Macário, E 16).
O silêncio ao qual convidam os Padres do deserto é também testemunho. Segundo a sua experiência, é necessário falar com as obras e não com a língua. É o próprio caminho de fé que opera; as palavras são muitas vezes inúteis.
«Um irmão pediu ao aba Sisoes: 'Diga-me uma palavra!' Ele lhe disse: 'Por que me constranges a falar inutilmente? Faze aquilo que vês!'» (Sisoés, 45). «Um irmão pediu ao abade Poemén: 'Irmãos vivem comigo. Queres que lhes dê ordens?' 'Não' - lhe disse o ancião - 'faça o seu trabalho, antes de tudo. E se quiserem viver isso pensarão por si mesmos'. O irmão lhe disse: 'Mas, são eles mesmos, pai, que querem que lhes dê ordens'. Disse-lhe o ancião: 'Não! Torne-se para eles um modelo, não um legislador'» (Poemén, 174).
«O abade Isaías disse ainda: «Não deve ser a tua língua a falar, mas as tuas obras, e as tuas palavras sejam mais humildes que as tuas obras. Não penses sem inteligência, não ensines sem humildade, a fim de que a terra possa receber a tua semente'».
Os frutos do silêncio, segundo os Padres do deserto, são múltiplos. O silêncio dá a quietude (Poemén, 84); gera a castidade (Ditos V, 25); é ajuda contra os ímpios (Ditos XI, 7); conserva a alma na paz (Matoés, 11). O silêncio é humildade (Ditos, XV, 76). O silêncio ajuda a não julgar o próximo, a não condenar ninguém, é remédio contra a maledicência. É escola de tolerância para com todos (Ammon, 8). Todavia, um tal silêncio exige muita coragem. Poemén afirma: «Na primeira vez, foge! Na segunda, foge! Na terceira, torna uma espada» (Poemén, 40).

«REPOUSA»: permanece na paz interior

Solidão e silêncio praticados concretamente representam, para os Padres do deserto, o momento fundamental da hesiquía do corpo, da hesiquía exterior. Uma quietude que, ainda que externa, é fundamental. De fato, como afirma Macário: «Ninguém pode ter a hesiquía da alma, se não se assegurou, antes, a do corpo.» Certamente, porém, é a hesiquía interior o eixo essencial da espiritualidade monástica oriental. Da solidão e da ausência de palavras, o monge é chamado a passar ao silêncio profundo ativo e criativo. E isto nada tem a ver com o quietismo. Pelo contrário: «é busca da única quietude possível, que é a paz de Cristo, a paz exultante de Deus o fundo do coração.»
O monge se consagra por vocação a perseguir unicamente a união com Deus através da oração que, por sua vez, pressupõe o total desapego, a perfeita purificação, a renúncia a tudo o que poderia atrasar a sua caminhada espiritual. Os Padres do deserto «recordaram, muitas vezes, que Jesus, mesmo depois do primeiro retiro no deserto, muitas vezes buscou a solidão. A solidão põe, portanto, o monge no centro mesmo do mistério da redenção, numa configuração a Cristo que toca o ápice mais doloroso, mas também o mais fecundo da Sua obra de salvação.»
Deste modo, a ligação entre a solidão e a oração prolongada, êxtase e sofrimento, vem solidamente afirmado. A busca cristã da solidão, do silêncio e da paz interior poderia parecer uma ponta sofisticada de egoísmo. Mas, não é assim. «Consagrar inteiramente a própria vida terrena para que Deus seja tudo em todas as coisas é precisamente o oposto do egoísmo. É participar do modo mais generoso possível, depois do martírio, à grande obra de Deus-Caridade.»