La Preghiera
del Cuore
La Preghiera del Cuore
M’hai
chiesto di parlarti della Preghiera del Cuore. Una domanda del genere m’era
stata rivolta già alcuni anni fa, ma allora avevo risposto che non intendevo
impegnarmi a parlare di un argomento che non conoscevo abbastanza.
Da allora è passato del tempo e ho un po’ più d’esperienza in
merito sia per quello che ho potuto constatare presso altri, sia per le scoperte
che io stesso ho avuto modo di fare nella mia ricerca del Signore. Dunque ti
affido qui qualche mia riflessione, pregandoti, però, di non attribuirle troppa
importanza.
Sai che nella spiritualità della Chiesa orientale la
preghiera del cuore è il frutto di una lunghissima esperienza. Quello che dirò
ha certamente dei punti in comune con questa tradizione, ma mi rendo
perfettamente conto di come io la tratti in maniera molto personale. Ciò di cui
ti parlerò forse non è la vera preghiera del cuore.
La mia intenzione non è di disegnare un quadro rigido, una
struttura fissa. Piuttosto vorrei indicarti una direzione, un cammino su cui
impegnarsi, ma di cui non si può dire in anticipo dove andrà a finire
esattamente.
La preghiera del cuore non è una meta da raggiungere, è un
modo di essere, una maniera di mettersi all’ascolto e di andare avanti.
Per cominciare, se lo credi, prima di metterti a leggere,
mettiti in preghiera e domanda allo Spirito del Signore di illuminarci entrambi,
poiché non ho altro desiderio che aiutarlo a rischiarare i nostri cuori.
Quando mi metto a pregare, non mi rivolgo al Dio dei filosofi
e neppure, in un certo senso, al Dio dei teologi. Mi rivolgo a mio Padre o,
meglio, a nostro Padre. Più precisamente ancora, mi rivolgo a colui che Gesù, in
grande intimità, chiamava Abbà. Quando i discepoli gli chiesero di insegnar loro
a pregare, Gesù disse semplicemente: «Quando pregate, dite: Abbà ...». Chiamare
così Dio è essere sicuri di essere amati. E’ una certezza che non è dell’ordine
delle idee dotte, bensì dell’ordine delle convinzioni intime.
Una certezza - la fede - cui siamo giunti, secondo la nostra
impressione, dopo un certo numero di riflessioni, di meditazioni, di ascolto
interiore; ma, in fin dei conti, questa certezza è un dono. Nel nostro cuore noi
crediamo all’amore perché è il Padre stesso che ci ha mandato il suo Spirito,
poiché ormai il suo Figlio è glorificato.
E proprio perché il Padre mi ama io posso rivolgermi a lui in
tutta sicurezza e fiducia. Non lo faccio basandomi sui miei meriti, né su solide
ragioni, ma lo faccio confidando nella tenerezza infinita per suo Figlio da
parte dell’Abbà di Gesù e che è anche il mio Abbà.
***
Lui è Padre. Che significa questo? Lui dà la vita. Ma la dà
non come qualcosa di distinto da sé, qualcosa che si può regalare. La dà donando
se stesso. L’unico dono che egli può fare è la sua persona; il risultato di
questo dono è un Figlio, un Figlio che lo ama senza misura, un Figlio per il
quale non ha che tenerezza e che, a sua volta, non è che tenerezza per il
Padre.
Questo è l’Abbà a cui mi rivolgo. L’unico che può darmi la
vita, una vita perfettamente ricalcata sulla sua, lui mi vuole adesso a sua
immagine e somiglianza, non come una aggiunta esteriore a me stesso, ma perché
mi genera a partire dalla sua stessa sostanza.
Ecco che cosa voglio dire quando gli chiedo «Abbà, che sia
santificato il tuo nome». Che tu sia perfettamente te stesso, Abbà, in me. Che
il tuo nome di Padre si realizzi perfettamente nella relazione che si stabilisce
tra noi. Abbà, io ti chiedo di essere mio Padre, di generarmi a tua immagine e
somiglianza, per puro amore, affinché a mia volta, io possa divenire, per pura
gratuità da parte tua, una tenerezza «verso di te».
***
La preghiera del cuore consiste semplicemente nel trovare la
strada che mi permetta di avere, riguardo al Padre, questo atteggiamento grazie
al quale potrà lui stesso santificare il suo Nome in me. In me e in tutti i suoi
figli. Nel suo unico Figlio, formato dell’Unico e di tutti i suoi fratelli.
Pregare significa accogliere il Padre e partecipare alla vita
che egli ci dà per grazia. Accogliere il Padre, ossia permettergli di generare
il Figlio, di far nascere il suo regno
nel mio cuore. Così lo Spirito potrà produrre tra me e il Padre dei legami
indistruttibili, legami di unità che si estenderanno fino a tutti i miei
fratelli.
Quale strada dovremo seguire per giungere a quell’incontro
col Padre al quale aspiriamo? Quale facoltà è a nostra disposizione per questo?
E’ forse l’intelligenza, la capacità di conoscere e di ragionare? Ascoltiamo la
risposta di Gesù: «Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché
hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelato ai piccoli.
Sì, o Padre, poiché così è piaciuto a te» (Mt 11,25‑26).
Ecco una cosa che ha del sorprendente: la strada è chiusa
agli intelligenti, a coloro che sanno pensare e calcolare. Non è a loro che Dio
ha deciso di rivelare i suoi segreti.
Ma non è forse stato Dio a darci la testa, la capacità di
pensare, di rappresentarci le cose, di immaginarle, come mezzo per entrare in
contatto con gli altri? Sì, è vero, queste facoltà ci sono state date da Dio.
Sono buone. Sono indispensabili. Noi non le disprezziamo. Non le sottovalutiamo.
Ma dobbiamo anche saperne vedere i limiti.
Allorché penso a un problema ‑diciamo più precisamente a una
persona molto vicina ‑ e la penso con la testa e non col cuore, la tengo
distante da me. La afferro, la manipolo, in modo da poterla analizzare a
piacimento, senza compromettermi con lei.
In fondo in fondo, non assumo impegni, mantengo le distanze,
conservo la mia sicurezza per rapporto a questa persona. Faccio tutto ciò che
posso per conoscerla, ma senza lasciarmi coinvolgere o contaminare dal dinamismo
che può promanare dal cuore di questa persona. Voglio rimanere libero nei suoi
confronti. In taluni casi questo modo d’agire è forse buono. Se, però, voglio
amare, non è certo questa la strada da seguire.
***
Gesù continua il suo insegnamento: «Tutto mi è stato affidato
dal Padre mio e nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il
Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt
11,27).
«Tutto mi è stato affidato dal Padre». Ciò significa che tra
Padre e Figlio sono state abolite tutte le distanze. Nessuno dei due ha cercato
di conservare una sicurezza in rapporto all’altro. Hanno accettato di
coinvolgersi reciprocamente.
In tal modo possono conoscersi l’un l’altro di quella
conoscenza d’amore che è presentata come un mistero cui possono partecipare solo
gli iniziati: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il
Padre se non il Figlio». Nessuno conosce, perché nessuno apre il suo cuore.
Se vogliamo conoscere il Padre, bisogna accettare di ricevere
questa conoscenza del Figlio, nella misura in cui egli vede che il nostro cuore
è pronto ad accoglierlo.
Per conoscere veramente Dio, bisogna quindi che io rinunci
alle mie sicurezze. Devo eliminare le distanze che il pensiero e ogni sorta di
rappresentazione mi permettevano di conservare in rapporto a lui. Devo
riconoscere di essere vulnerabile.
Questa vulnerabilità che nascondevo così bene, devo
accettarla alla luce del sole, viverla, ossia lasciare che le reazioni vere del
mio cuore si esprimano liberamente. Solo così facendo potrò entrare in relazione
con il Padre e il Figlio... e tutti gli uomini miei fratelli.
Questo significa, nella realtà concreta, che devo accettare
di pormi a livello del cuore, devo dargli il diritto di esistere, di
manifestarsi, di esprimersi nel modo che gli è proprio, cioè attraverso
sentimenti profondi: fiducia, gioia, entusiasmo, ma ugualmente paura, talvolta
angoscia... collera.
Questo non significa vivere a livello della sensibilità
superficiale; significa, al contrario, accettare che si sviluppino in noi quei
movimenti profondi che ci portano a incontrare l’altro nella verità. Ecco che
cosa significa essere «piccolo piccolo»: è colui che si esprime in tutta
spontaneità e si lascia prendere dall’amore di colui che gli è davanti. Come ci
riesce difficile avere il coraggio di essere piccoli piccoli!
***
Queste riflessioni si situano sia sulla linea del Vangelo che
su quella di un processo psicologico normale. Evidentemente i due livelli sono
distinti, ma si completano e si compenetrano. Dobbiamo arrivare a cogliere tutto
attraverso lo sguardo d’amore che Gesù ha sulle creature e perfino sulle Persone
divine.
Ecco che cosa io chiamo «vedere col cuore»: accettare che il
Figlio mi riveli il Padre su quel solo piano dove io sono capace di accogliere
questa rivelazione, ossia sul piano in cui, secondo il mio essere umano, c’è in
me una immagine della relazione d’intimità che esiste tra il Padre e il Figlio:
nel mio cuore.
La purificazione del
cuore,
purificazione di tutto l’essere
attraverso il cuore
purificazione di tutto l’essere
attraverso il cuore
Non è necessario avere una lunga esperienza dell’esistenza
umana e più ancora della vita spirituale per sapere che siamo prigionieri di un
mondo quasi sconfinato di disordini: peccati, squilibri affettivi, ferite non
cicatrizzate, abitudini cattive... Tutto questo costituisce impurità per il
nostro cuore.
Poco fa dicevamo che il linguaggio del nostro cuore si situa
al livello delle emozioni. Tutti i disordini che ho menzionato sfociano in
emozioni sregolate; si esprimono quasi a nostra insaputa; ci comandano; ci
dilaniano; chiudono la porta a Dio; ci legano a una specie di automatismo del
male. E tutto questo viene dal nostro cuore! «Ciò che esce dalla bocca proviene
dal cuore ed è questo che inquina l’uomo. Dal cuore infatti procedono cattivi
pensieri, omicidi... queste sono le cose che inquinano l’uomo» (Mt 15,18‑20). Se
voglio liberare il mio essere dall’immondizia, devo per prima cosa purificare il
mio cuore.
***
Per far fronte a questo bisogno urgente di rettifica, si fa
ricorso normalmente a quella che si può chiamare l’ascesi classica. E’ una
tecnica sperimentata, messa a punto da lunghe generazioni di monaci, di
cristiani, di uomini di buona volontà, decisi a liberarsi dalla schiavitù di cui
sono prigionieri.
E’ un impegno che fa ricorso a tutte le risorse della nostra
volontà, della nostra energia e della nostra perseveranza, alla luce della fede
e dell’amore. Questa ascesi ha i suoi meriti e non bisogna mai smettere di
ricorrervi. Ma essa ha anche i suoi limiti.
In particolare, per quanto concerne l’autentica purificazione
del cuore, bisogna andare al di là delle tecniche umane. Rileggiamo a questo
proposito gli inviti di san Bruno al suo amico Rodolfo:
«Che fare allora, mio caro? Che fare se non credere ai
consigli divini, credere alla Verità che non può sbagliarsi? Lei dà questo
consiglio a tutti: "Venite a me voi tutti che siete stanchi e affaticati e io vi
ristorerò" (Mt 11,28). Non è una pena spaventosa e inutile l’essere tormentati
dai desideri, di patire continuamente per affanni e angosce, paura e dolore
provocati da questi desideri? Quale fardello è più opprimente di quello che col
suo peso abbassa lo spirito dalla posizione della sua sublime dignità verso i
bassifondi, in pura ingiustizia?» (A Rodolfo 9).
Dunque la prima forma in assoluto di purificazione è
rivolgersi a Gesù, andare da lui per ricevere da lui il conforto. Lui ci rivolge
questo invito subito dopo averci domandato di rinunciare a essere sapienti e
intelligenti, per diventare piccoli piccoli. Entrare nella via del cuore è
riconoscere che la sola purezza vera è un dono di Gesù.
«Prendete il mio giogo sopra di voi e venite dietro di me,
poiché io sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le vostre anime»
(Mt 11,29).
La purificazione fondamentale si realizza a partire da quando
tutte le nostre sozzure, i disordini che ci affliggono si incontrano con Gesù.
Non è un compito più facile di quello dell’ascesi classica, ma è più efficace,
perché ci obbliga a stabilirci nella verità, la verità di noi stessi, per cui
siamo costretti ad aprire gli occhi sulla realtà del nostro peccato; verità su
Gesù, che è veramente il Salvatore delle nostre anime non soltanto in modo
generale e distante, ma a livello di un contatto immediato con ognuna delle
sporcizie da cui siamo afflitti.
Bisogna dunque che io impari ad offrirgli, che impari ad
affidargli senza riprendermela più, ogni impurità del mio cuore man mano che
essa viene alla luce sia nel gioco delle circostanze, sia per un moto profondo
del mio cuore che finalmente vuole ritrovare la sua libertà.
***
Ogni volta che constato in me uno di quei legami che mi
paralizzano, la cosa più importante non è di dichiarare guerra a questa
schiavitù, poiché, nella maggior parte dei casi, arriverei soltanto a tagliare i
rami, senza raggiungere le radici. La cosa più importante è di mettere a nudo le
radici, di farle venire alla luce, per quanto brutte, per quanto disgustose
siano a vedersi.
Si tratta precisamente di assumerle nella loro realtà e di
poterle offrire al Salvatore con un gesto libero e cosciente. In tale
prospettiva, l’invocazione classica «Gesù, figlio del Dio vivo, abbi pietà di me
peccatore» non corre il rischio di essere una frase fatta. E’ la constatazione,
rinnovata senza posa, che sta per avvenire un nuovo incontro tra il cuore
purificante di Gesù e il mio cuore tutto macchiato.
E’ evidente che c’è in questo procedimento un elemento di
pura psicologia umana, ma questo che cosa ha di sconvolgente? L’opera della
grazia non si modella forse sulle strutture della natura? Nel nostro caso,
questa diviene il supporto della Redenzione che viene a operare nel mio cuore la
trasformazione, la cicatrizzazione delle ferite mediante l’incontro personale
col Cristo risorto.
Progressivamente ci si abitua così a ritornare a lui senza
posa, movendo specialmente da ciò che in noi è oscuro, tenebroso, inquietante.
E’ una disposizione del cuore che all’inizio fa paura.
Ci hanno insegnato per troppo tempo che al Signore non si
possono offrire che cose buone, cose belle. Tutto quello che non è atto di virtù
non gli può essere offerto. Ma dir questo non è andar in senso contrario alla
verità del Vangelo? Gesù stesso afferma che egli non è venuto per i sani, ma per
i malati. Bisogna, pertanto, senza falsi pudori, imparare ad essere di fronte al
medico celeste come autentici malati, che riconoscono lealmente ciò che in loro
è falso, menzognero, contrario a Dio. Lui solo ci può guarire.
Il mio
corpo,
luogo di incontro col Verbo
e tempio dello Spirito
luogo di incontro col Verbo
e tempio dello Spirito
Spesso ci si limita a considerare la «preghiera del cuore»
come una espressione simbolica. Parlare del cuore sarebbe un modo immaginifico
di evocare una realtà interiore, tutta spirituale.
Ma non è esatto. Tutti i moti del cuore, supporto alla nostra
relazione con il Padre, sono moti legati al nostro essere sensibile, materiale.
L’esperienza ci insegna, talvolta anche con rischio per la salute, che le
emozioni veramente profonde toccano anche il nostro cuore fisico.
E’ pertanto impossibile entrare nella preghiera del cuore se
non accettiamo di vivere in maniera cosciente e decisa a livello del nostro
corpo.
Dio ci ha fatti così. Il racconto della Genesi ci mostra che
Yahvè ha modellato l’uomo a partire dal fango della terra e afferma con grande
sicurezza che questo essere materiale è veramente a sua immagine e
somiglianza.
Il nostro corpo non è dunque un ostacolo alla nostra
relazione con Dio. Al contrario, esso è l’opera stessa di Dio che ha costituito
proprio noi come figli, chiamati a ricevere lui in eredità.
In tale prospettiva ci colloca anche tutta l’economia
dell’incarnazione del Figlio di Dio. La Chiesa dei primi secoli si è battuta in
modo accanito per difendere questa realtà ossia che Gesù è veramente un uomo.
Nella carne lui è nato, nella carne è vissuto, ci ha istruito, ha sofferto, è
morto e risuscitato.
Sono le opere umane del Verbo di Dio a darci la vita giorno
dopo. La parola di Dio viene a noi con espressioni umane. Il nostro peccato non
viene purificato in maniera simbolica, ma proprio con l’effusione del sangue che
sgorga dal corpo di Gesù. Lui è veramente morto e resuscitato nella carne. Ed è
proprio questa resurrezione materiale che salva sia le nostre anime che i nostri
corpi.
E da ultimo, lo Spirito ci è stato donato soltanto a partire
dalla resurrezione corporale del Figlio. E’ lui, il figlio di Maria, che ci
manda lo Spirito dal seno del Padre. Non è il Verbo increato, ma il Verbo
incarnato, dopo che ha condiviso la nostra esistenza ed è divenuto uno di
noi.
***
Oni giorno noi facciamo esperienza di questa incarnazione
attraverso i sacramenti, la liturgia, la vita di comunità, l’appartenenza al
Corpo della Chiesa. Tutto questo è il fondamento diretto della realtà corporale
di Cristo e la sua presenza nelle nostre vite.
Sappiamo accogliere Gesù così come egli viene a noi, cioè
rivolgendosi a noi nel nostro corpo. Non affrettiamoci a sbarazzarci troppo
presto di questo intermediario che spesso tendiamo a considerare un po’ come
un’impurità nelle nostre relazioni con Dio. Non è vero, esso non è un’impurità,
anzi è il luogo stesso del nostro incontro col nostro Abbà.
Ci sarebbe impossibile immaginare la vita di comunità se i
nostri fratelli fossero degli esseri disincarnati, dei puri spiriti, da
raggiungersi al di là degli involucri carnali. Allo stesso modo sarebbe
rifiutare la realtà dell’amore di Dio il voler fare astrazione dalla realtà
carnale, materiale, greve, del Figlio che viene a noi.
L’Eucaristia che noi celebriamo ogni giorno è veramente la
celebrazione di un atto che ha comportato alcune trasformazioni profonde nel suo
corpo e nel suo sangue, non perché li ha messi tra parentesi o superati, ma
perché ha dato loro pieno senso; costituiscono una realtà materiale che è il
Figlio di Dio.
Allo stesso modo il nostro corpo, con tutti i suoi gravami, i
suoi limiti, le sue costrizioni è la nostra realtà, quello che siamo noi. E’
proprio il corpo mio che entra in contatto con quella realtà di cui Gesù ha
detto: «Questo è il mio corpo».
E’ l’incontro di queste due realtà corporali che stabilisce
il contatto di vita tra Dio e me. «Se non mangerete il mio corpo e non berrete
il mio sangue, non avrete la vita in voi... Come il Padre che è vivo mi ha
mandato e io vivo per il Padre, ugualmente chi mangia di me vive per me» (Gv
6,57).
***
La conseguenza di questo stato di cose è che non posso
pregare senza pregare nel mio corpo. Quando mi rivolgo a Dio, non posso fare
astrazione da questa mia realtà incarnata. Allora, quando debbo rivolgermi a
Dio, certi gesti imposti e certe cogenti condizioni materiali non sono solo
questione di disciplina religiosa. Ciò corrisponde all’unica realtà: Dio mi ama
così come mi ha fatto. Perché voler essere più spirituale di lui?
Devo imparare, dunque, a vivere a livello del mio corpo e di
tutte le costrizioni che questo mi impone. Cibo, sonno, svago, malattia, la
limitatezza delle mie forze... tutto questo non costituisce ostacolo tra me e
Dio; al contrario, costituisce la trama del tessuto che stabilisce una
ininterrotta continuità tra il più intimo della realtà divina e il più concreto
della mia esistenza quotidiana.
Chi di noi non ha fatto l’esperienza, talvolta terribilmente
dolorosa, di sentirsi limitato, quasi prigioniero a causa, per esempio, di
difficoltà di salute?
Se il nostro cuore è sincero non possiamo che dire questo: è
Dio che viene a noi attraverso queste costrizioni dolorose. Esse sono proprio il
punto di intersezione dell’amore di Dio nella nostra vita.
Il nostro cuore accoglie Dio proporzionatamente a quanto è
attento a questa realtà che noi vorremmo poter considerare inferiore alla nostra
vocazione spirituale. Facciamo attenzione a questa menzogna permanente che il
Principe della menzogna cerca di istillare così nei nostri cuori. Non giochiamo
ai puri spiriti, sappiamo essere molto di più, noi siamo i figli di Dio.
Noi parliamo di preghiera. Ma sappiamo poi pregare? E
specialmente so in che cosa consiste la vera preghiera? Onestamente devo
confessare che io non lo so. Sento in me un richiamo profondo in una certa
direzione, ma sono al buio.
Fortunatamente «lo Spirito viene in aiuto alla nostra
debolezza, poiché non sappiamo che cosa chiedere per pregare come si deve; ma lo
Spirito stesso intercede per noi con gemiti ineffabili e Colui che scruta i
cuori sa quale è il desiderio dello Spirito e che la sua intercessione per i
santi corrisponde ai piani di Dio» (Rm 8,26‑27).
La preghiera è nel mio cuore. Sgorga dal mio cuore. Tuttavia
non è opera soltanto mia. Lo Spirito mi è stato donato; è stato diffuso nel mio
cuore ed è lui che prega in me. Lo Spirito viene dal cuore di Dio che desidera
accendere nel mio cuore la stessa fiamma che brucia nel suo.
Conosciamo tutti i passi di san Paolo che ci parlano di
questo; ma non tendiamo forse a considerarli in maniera puramente teorica o, per
esprimerci in modo più elegante, a vederli come verità di fede, cioè come cose
di cui si parla con convinzione, ma che si vivono solo nella più profonda
oscurità?
Questa presenza dello Spirito nel mio cuore parrebbe una cosa
che si situi unicamente a livello di Dio e con essa possa eventualmente
comunicare solo attraverso formule intellettuali. La realtà in se stessa,
invece, sfuggirebbe totalmente alla mia esperienza. Ma è proprio questo che san
Paolo vuol dire?
In reazione agli eccessi di questo atteggiamento, sarà forse
allora da esigere che ogni esperienza cristiana autentica sia un’esperienza
dello Spirito, alla maniera degli Apostoli quando hanno ricevuto le lingue di
fuoco la mattina di Pentecoste? Questo non è mai stato l’insegnamento della
Chiesa. Ma tra i due estremi si trova un atteggiamento vero, alla portata di
ogni cristiano, secondo cui la presenza dello Spirito nella nostra vita è una
realtà che ha un influsso diretto sulla nostra maniera di essere, sulle nostre
relazioni d’amore coi fratelli, sulla nostra preghiera.
***
Se riprendiamo le diverse tappe di cui abbiamo parlato,
constatiamo una progressione. Rinunciare a considerare il centro della nostra
attività di preghiera a livello di testa, di rappresentazioni, di sistemi di
pensiero. Entrare nel nostro cuore. Scoprirvi tutto un mondo disordinato di
emozioni e di ferite che promanano da esso e che hanno bisogno di essere
purificate. Abbiamo scoperto che c’è una possibilità effettiva di integrare
tutte queste ferite del nostro cuore nel movimento di redenzione, facendole
venire a galla, in modo da offrirle coscientemente all’azione redentrice di
Gesù.
Così, senza dirlo, siamo giunti a parlare di un moto dello
Spirito in noi. Se possiamo fare quello di cui dicevo è perché lo Spirito del
Signore è all’opera dentro di noi e ci permette di discernere, nel reticolo
complesso delle nostre emozioni, ciò che possiamo offrire, con pazienza e
perseveranza, alla grazia di purificazione e di resurrezione del Salvatore.
Tutto ciò di cui abbiamo parlato è già un’opera dello
Spirito. Continuiamo allora sulla stessa linea. Al di là di tutti questi moti
disordinati del cuore, specialmente da quando l’opera di Gesù comincia a
ristabilire l’ordine, riconosciamo dei moti meno sregolati, che progressivamente
giungono perfino ad essere ben ordinati; così, senza che noi ci accorgiamo, il
fondo del nostro cuore impara a mettersi in moto spontaneamente verso il
Signore.
E’ soltanto dopo un po’, guardando a ciò che ci è capitato,
che constatiamo che, di fatto, lo Spirito del Signore era all’opera
discretamente, silenziosamente, in fondo al nostro cuore. Man mano che la pace
si è stabilita nelle profondità, si mette in azione un certo dinamismo col quale
dobbiamo imparare a collaborare.
E’ così che impariamo ad assumere tutti i movimenti del
nostro cuore, quelli buoni, quelli meno buoni e anche quelli cattivi per
orientarli verso Dio. Gli uni vengono direttamente dal Padre e ritornano a 1ui.
Gli altri hanno bisogno di essere trasformati e assunti dalla morte e
resurrezione di Gesù. Tutti richiedono di essere integrati coscientemente nel
dinamismo dello Spirito diffuso nei nostri cuori.
Si tratta di imparare ad essere vigili ai moti del cuore per
unirli volontariamente e coscientemente all’azione dello Spirito Santo che è in
noi.
Tutto ciò non implica alcuna grazia mistica. Si tratta
solamente di prendere coscienza, con dolcezza e con semplicità, che il nostro
cuore è vivo e che questa vita noi possiamo offrirla allo Spirito Santo perché
egli la coinvolga nel suo movimento verso il Padre.
***
San Paolo dice che lo Spirito prega in noi con gemiti
ineffabili. Quest’ultima parola merita che vi facciamo attenzione. L’azione
normale dello Spirito non è darci idee chiare, né darci lumi, né darci alcunché.
L’azione dello Spirito è portarci verso il Padre.
«Tutti quelli che lo Spirito di Dio anima sono figli di Dio.
Così voi non avete ricevuto uno spirito di schiavitù per ricadere nella paura;
voi avete ricevuto uno Spirito di figli adottivi che ci fa esclamare: Abbà!
Padre! Lo Spirito stesso si unisce al nostro spirito per attestare che siamo
figli di Dio» (Rm 8,14-15).
Lo
Spirito è un testimone; è un dinamismo che ci trascina. Soprattutto non dobbiamo
scrutarlo, identificarlo, afferrarlo per controllarlo. Questo sarebbe cacciarlo
dal nostro cuore; sarebbe estinguerlo. Lasciamogli tutta la sua libertà di
pregare in noi, col suo modo velato, nascosto e misterioso, che noi valutiamo
poi dai frutti. Nella misura con cui constateremo che impariamo a pregare; che,
senza sapere perché, siamo diventati capaci di domandare a Dio e di essere
esauditi; tutto questo è un segno che, a dispetto di tutte le nostre evidenti
debolezze, lo Spirito prega in noi.
La mia
debolezza, luogo di scoperta e di
incontro
con la tenerezza del Padre
con la tenerezza del Padre
Riprendiamo ora
certi orientamenti fondamentali di ciò che abbiamo detto. Riprendiamoli e
unifichiamoli, poiché rappresentano un atteggiamento fondamentale della
preghiera del cuore.
Il riflesso
spontaneo di ogni essere umano è d’aver paura delle sue debolezze. A partire dal
momento in cui constatiamo che su un punto o su un altro non possiamo contare
sulle nostre forze, tende a stabilirsi in noi un’inquietudine che rischia
talvolta di divenire angoscia. Invece tutto quello che abbiamo detto fin qui ci
conduce a lasciar perdere le nostre sicurezze personali e a far apparire ciò che
abbiamo chiamato la nostra vulnerabilità, i nostri disordini nascosti, i limiti
della nostra condizione di creatura, ecc… Ogni volta ci siamo detti: non c’è che
una soluzione, ossia riconoscere la realtà di quello che siamo e darla al
Signore sì che se ne faccia carico.
Ricordiamoci
l’episodio della tempesta sedata. Gli Apostoli sono spaventati dal cattivo tempo
che scuote la loro barca e vanno a svegliare Gesù. Lui si volge verso di loro e
domanda, stupito: «Perché avete paura, uomini di poca fede?» (Mt 8,26); poi, con
un gesto, placa le onde.
Perché allora aver
paura delle mie debolezze? Esse ci sono. Per tanto tempo ho rifiutato di
guardarle in faccia. Un poco alla volta mi sono messo ad ammansirle. Ora sono
proprio costretto ad ammettere che fanno parte di me. Non sono un qualcosa di
esterno di cui un giorno potrei arrivare a sbarazzarmi definitivamente.
Ben di più: se fossi
incline a dimenticarle il Padre si incaricherebbe presto di ricordarmele.
Permetterebbe quella tal colpa davanti alla quale non potrei più negare la mia
realtà di peccatore. Farebbe che la salute mi giochi dei cattivi scherzi per cui
mi dovrei riconoscere vinto e consegnarmi senza resistenze all’amore del Padre.
Mi farebbe toccare con mano, al di là di ogni dubbio, quanto le mie facoltà
siano limitate.
Ma la cosa nuova sta
nel fatto che queste debolezze, invece di rappresentare un pericolo,
costituiscono per me una possibilità di entrare in contatto con Dio.
Ed è questo il
motivo per cui un po’ alla volta devo lasciarmi ammansire da loro. Non più
considerarle come il lato inquietante della mia personalità, ma come una
dimensione voluta o permessa dal Padre; non la peggiore delle ipotesi, ma una
struttura fondamentale dell’ordine della vita divina così come mi è stata
data.
E quando mi dovessi
trovare improvvisamente davanti a una fragilità che non avevo ancora scoperto in
me, il mio primo riflesso non dovrà più essere di scoraggiarmi, ma di domandarmi
in qual punto vi è nascosto il Padre.
***
Come allora non
porsi una domanda? Questa trasformazione della debolezza, che ha tutte le
apparenze di uno scacco, in una vittoria dell’amore è una specie di ricupero con
cui Dio trasforma il male in bene o, al contrario, non siamo di fronte a una
dimensione fondamentale dell’ordine divino?
Ci sarebbe molto da
dire su questo argomento. Accontentiamoci di constatare semplicemente che, anche
nell’ordine naturale, ogni amore autentico è una vittoria della debolezza.
Amare non è
dominare, possedere, imporsi a colui che si ama. Amare vuol dire accogliere
senza premunirsi contro l’altro che viene incontro; a nostra volta abbiamo la
certezza di essere pienamente accolti dal partner, senza essere giudicati,
condannati o confrontati.
Non ci sono più
prove di forza tra due esseri che si amano. C’è una specie di intesa interiore
reciproca grazie alla quale ognuno sa che non ha da temere alcun male da parte
dell’altro.
Questa esperienza,
ancorché imperfetta, è già ben persuasiva. Ma non è che un riflesso della realtà
divina. A partire dal momento in cui cominciamo a credere veramente nel nostro
cuore alla tenerezza infinita del Padre, ci sentiamo in qualche modo obbligati
ad accondiscendere sempre più a una accettazione positiva e gioiosa di un
non-avere, di un non-sapere, di un non-potere. E non si tratta di alcuna malsana
forma di umiliazione. Stiamo semplicemente entrando nel mondo dell’amore e della
fiducia.
***
Così, senza quasi
rendercene conto, entriamo in comunione con la vita divina. Le relazioni del
Padre e del Figlio nello Spirito, a un livello che sorpassa del tutto la nostra
possibilità di capire, sono una forma perfetta di questa debolezza pienamente
assunta nella comunione.
In un modo più
vicino a noi, questa tenerezza intima del tre volte Santo si manifesta nella
relazione del Figlio incarnato in rapporto a suo Padre. Come non essere colpiti
dalla serenità e dall’infinita sicurezza con cui Gesù dichiara tranquillamente
di non aver niente di proprio, di non poter fare nulla da solo, se non quello
che vede fare dal Padre? Quale uomo accetterebbe una simile spogliazione?
Ma non è proprio in
questa direzione che siamo obbligati ad impegnarci se vogliamo realmente vivere
nelle profondità del nostro cuore, quale il Padre l’ha creato e che trasfigura
con la morte e la resurrezione di suo Figlio?
Maria ci orienta
nella stessa direzione. Il Magnificat è in un unico slancio un canto di trionfo
e il riconoscimento di una spogliazione totale. Le due cose vanno di pari passo.
Fin dall’inizio lei ha riconosciuto e accettato la sua totale debolezza; si
trova così a essere in grado di accogliere il Figlio che il Padre le dona.
Diviene Madre di Dio perché è lei la più vicina alla povertà di Dio.
Se si segue il
cammino di cui parlo, è normale che progressivamente l’attività intellettuale si
plachi durante il tempo della preghiera; e, man mano che le emozioni del cuore
sono canalizzate, anche ogni sorta di distrazioni e di divagazione perde la sua
ragion d’essere. Il che significa che la preghiera del cuore, con un moto quasi
spontaneo, ci orienta verso il silenzio.
Certi giorni questa
esperienza è forte e avviene quasi necessariamente che ci si trovi esposti, se
così si può dire, alla «tentazione del silenzio».
Il silenzio è un
bene che esercita una seduzione su tutti i cuori non appena ne hanno fatto una
certa esperienza sapida. Ma ci sono molte forme di silenzio. Non tutte sono
buone. La maggior parte di esse è una deformazione piuttosto che un’autentica
preghiera di silenzio.
La prima tentazione
è di rendere il silenzio un agire, anche se si è intimamente persuasi del
contrario. Col pretesto che l’intelligenza non lavora e che il cuore sembra in
riposo ci si immagina d’aver raggiunto il vero silenzio dell’essere. In realtà
questo silenzio, anche se ha una indiscutibile autenticità, è il risultato di
uno sforzo della volontà e questo, alla fin fine, è il più sottile, ma anche il
più pernicioso degli agire. Invece di avere i1 nostro cuore in stato di
disponibilità, esso ci tiene in uno stato in cui ci imponiamo un atteggiamento
artificiale e dove in fin dei conti, noi non offriamo accoglienza al Signore
perché ci basiamo sulle nostre forze. Nel caso di persone con una forte volontà
questo può rappresentare un più grande ostacolo a una vera disponibilità al
Signore. Materialmente parlando, il silenzio è grande, ma è un silenzio
ripiegato su se stesso, appoggiato su se stesso.
Un’altra tentazione
consiste nel voler fare del silenzio una meta. Ci si immagina che la
ragione d’essere della preghiera del cuore, e anche di ogni contemplazione, sia
il silenzio. Ci si ferma a una realtà materiale. Non ci si ferma alla persona
del Padre o a quella del Figlio o dello Spirito.
Quel che conta è il
mio stato e non la relazione reale d’amore e di disponibilità che ho verso Dio.
Non è più una preghiera, è una contemplazione di me stesso.
Una tentazione
analoga alla precedente consiste nel fare del silenzio una realtà in se stessa.
Il silenzio basta. Quando i rumori dei sensi, dell’intelletto,
dell’immaginazione sono placati, si stabilisce in noi una autentica
soddisfazione... e questo basta. Non si cerca nulla di più. C’è un rifiuto a
cercare altro. Tutto ciò che di nuovo introducesse un’idea qualunque, anche sul
Signore, anche se venisse da lui, pare un ostacolo. La sola realtà divina in
quel momento è il silenzio. Là non c’è preghiera. Non c’è altra cosa che la
costruzione di un idolo che si chiama silenzio.
***
Ciò non toglie che
un silenzio autentico sia una realtà molto importante, alla quale bisogna
attribuire grande valore. Ma se si vuole entrare in un silenzio autentico,
bisogna dal profondo del cuore rinunciare al silenzio. Non bisogna avvilirlo,
sottovalutarlo, rinunciare a cercarlo; ma evitiamo di farne una meta.
Soprattutto bisogna
evitare di credere che il vero silenzio sia il risultato della mia
intraprendenza. Non devo costruire il silenzio di sana pianta, come una cosa che
si fabbrica. Ci si immagina troppo spesso che il silenzio sia unicamente
stabilire la pace nelle facoltà intellettive, di immaginazione e di sensibilità.
Questo è un aspetto del silenzio, ma non è tutto il silenzio.
Ci vuole ancora che
il nostro cuore profondo, in quanto si identifica con la volontà, sia lui stesso
in silenzio, che sia placato ogni desiderio all’infuori di quello di fare la
volontà del Padre. Ossia che la mia volontà, invece di essere tesa per imporsi
al resto del mio essere umano, sia essa stessa pura disponibilità, ascolto e
accoglienza.
Inizia allora ad
esistere la possibilità di entrare in un autentico silenzio di tutto l’essere di
fronte a Dio, un silenzio nato dalla conformità reale del mio essere profondo
con il Padre di cui è l’immagine e la somiglianza.
***
Dio solo basta;
tutto il resto è nulla. Il silenzio autentico è la manifestazione di questa
realtà fondamentale di ogni preghiera. C’è veramente silenzio nel cuore solo
allorquando ne sono sparite tutte le impurità che si opponevano al regno del
Padre.
Il silenzio vero si
stabilisce solo in un cuore puro, in un cuore divenuto simile al cuore di Dio.
E’ questa la ragione per cui un cuore puro può conservare un silenzio completo
anche quando è immerso in ogni sorta di attività, perché non c’è più dissonanza
tra lui e Dio. Anche se la sua intelligenza e la sua sensibilità sono attive per
essere conformi alla volontà di Dio, il silenzio autentico continua a regnare in
questo cuore.
«Beati i puri di cuore perché vedranno
Dio».