Oración , Preghiera , Priére , Prayer , Gebet , Oratio, Oração de Jesus

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CATECISMO DA IGREJA CATÓLICA:
2666. Mas o nome que tudo encerra é o que o Filho de Deus recebe na sua encarnação: JESUS. O nome divino é indizível para lábios humanos mas, ao assumir a nossa humanidade, o Verbo de Deus comunica-no-lo e nós podemos invocá-lo: «Jesus», « YHWH salva» . O nome de Jesus contém tudo: Deus e o homem e toda a economia da criação e da salvação. Rezar «Jesus» é invocá-Lo, chamá-Lo a nós. O seu nome é o único que contém a presença que significa. Jesus é o Ressuscitado, e todo aquele que invocar o seu nome, acolhe o Filho de Deus que o amou e por ele Se entregou.
2667. Esta invocação de fé tão simples foi desenvolvida na tradição da oração sob as mais variadas formas, tanto no Oriente como no Ocidente. A formulação mais habitual, transmitida pelos espirituais do Sinai, da Síria e de Athos, é a invocação: «Jesus, Cristo, Filho de Deus, Senhor, tende piedade de nós, pecadores!». Ela conjuga o hino cristológico de Fl 2, 6-11 com a invocação do publicano e dos mendigos da luz (14). Por ela, o coração sintoniza com a miséria dos homens e com a misericórdia do seu Salvador.
2668. A invocação do santo Nome de Jesus é o caminho mais simples da oração contínua. Muitas vezes repetida por um coração humildemente atento, não se dispersa num «mar de palavras», mas «guarda a Palavra e produz fruto pela constância». E é possível «em todo o tempo», porque não constitui uma ocupação a par de outra, mas é a ocupação única, a de amar a Deus, que anima e transfigura toda a acção em Cristo Jesus.

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quarta-feira, 6 de março de 2013

La Preghiera del Cuore


La Preghiera
del Cuore





















                                                                        La Preghiera del Cuore

M’hai chiesto di parlarti della Preghiera del Cuore. Una domanda del genere m’era stata rivolta già alcuni anni fa, ma allora avevo risposto che non intendevo impegnarmi a parlare di un argomento che non conoscevo abbastanza.

Da allora è passato del tempo e ho un po’ più d’esperienza in merito sia per quello che ho potuto constatare presso altri, sia per le scoperte che io stesso ho avuto modo di fare nella mia ricerca del Signore. Dunque ti affido qui qualche mia riflessione, pregandoti, però, di non attribuirle troppa importanza.

Sai che nella spiritualità della Chiesa orientale la preghiera del cuore è il frutto di una lunghissima esperienza. Quello che dirò ha certamente dei punti in comune con questa tradizione, ma mi rendo perfettamente conto di come io la tratti in maniera molto personale. Ciò di cui ti parlerò forse non è la vera preghiera del cuore.

La mia intenzione non è di disegnare un quadro rigido, una struttura fissa. Piuttosto vorrei indicarti una direzione, un cammino su cui impegnarsi, ma di cui non si può dire in anticipo dove andrà a finire esattamente.

La preghiera del cuore non è una meta da raggiungere, è un modo di essere, una maniera di mettersi all’ascolto e di andare avanti.

Per cominciare, se lo credi, prima di metterti a leggere, mettiti in preghiera e domanda allo Spirito del Signore di illuminarci entrambi, poiché non ho altro desiderio che aiutarlo a rischiarare i nostri cuori.




Quando mi metto a pregare, non mi rivolgo al Dio dei filosofi e neppure, in un certo senso, al Dio dei teologi. Mi rivolgo a mio Padre o, meglio, a nostro Padre. Più precisamente ancora, mi rivolgo a colui che Gesù, in grande intimità, chiamava Abbà. Quando i discepoli gli chiesero di insegnar loro a pregare, Gesù disse semplicemente: «Quando pregate, dite: Abbà ...». Chiamare così Dio è essere sicuri di essere amati. E’ una certezza che non è dell’ordine delle idee dotte, bensì dell’ordine delle convinzioni intime.

Una certezza - la fede - cui siamo giunti, secondo la nostra impressione, dopo un certo numero di riflessioni, di meditazioni, di ascolto interiore; ma, in fin dei conti, questa certezza è un dono. Nel nostro cuore noi crediamo all’amore perché è il Padre stesso che ci ha mandato il suo Spirito, poiché ormai il suo Figlio è glorificato.

E proprio perché il Padre mi ama io posso rivolgermi a lui in tutta sicurezza e fiducia. Non lo faccio basandomi sui miei meriti, né su solide ragioni, ma lo faccio confidando nella tenerezza infinita per suo Figlio da parte dell’Abbà di Gesù e che è anche il mio Abbà.

***

Lui è Padre. Che significa questo? Lui dà la vita. Ma la dà non come qualcosa di distinto da sé, qualcosa che si può regalare. La dà donando se stesso. L’unico dono che egli può fare è la sua persona; il risultato di questo dono è un Figlio, un Figlio che lo ama senza misura, un Figlio per il quale non ha che tenerezza e che, a sua volta, non è che tenerezza per il Padre.

Questo è l’Abbà a cui mi rivolgo. L’unico che può darmi la vita, una vita perfettamente ricalcata sulla sua, lui mi vuole adesso a sua immagine e somiglianza, non come una aggiunta esteriore a me stesso, ma perché mi genera a partire dalla sua stessa sostanza.

Ecco che cosa voglio dire quando gli chiedo «Abbà, che sia santificato il tuo nome». Che tu sia perfettamente te stesso, Abbà, in me. Che il tuo nome di Padre si realizzi perfettamente nella relazione che si stabilisce tra noi. Abbà, io ti chiedo di essere mio Padre, di generarmi a tua immagine e somiglianza, per puro amore, affinché a mia volta, io possa divenire, per pura gratuità da parte tua, una tenerezza «verso di te».

***

La preghiera del cuore consiste semplicemente nel trovare la strada che mi permetta di avere, riguardo al Padre, questo atteggiamento grazie al quale potrà lui stesso santificare il suo Nome in me. In me e in tutti i suoi figli. Nel suo unico Figlio, formato dell’Unico e di tutti i suoi fratelli.

Pregare significa accogliere il Padre e partecipare alla vita che egli ci dà per grazia. Accogliere il Padre, ossia permettergli di generare il Figlio, di far nascere il suo regno nel mio cuore. Così lo Spirito potrà produrre tra me e il Padre dei legami indistruttibili, legami di unità che si estenderanno fino a tutti i miei fratelli.




Quale strada dovremo seguire per giungere a quell’incontro col Padre al quale aspiriamo? Quale facoltà è a nostra disposizione per questo? E’ forse l’intelligenza, la capacità di conoscere e di ragionare? Ascoltiamo la risposta di Gesù: «Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelato ai piccoli. Sì, o Padre, poiché così è piaciuto a te» (Mt 11,25‑26).

Ecco una cosa che ha del sorprendente: la strada è chiusa agli intelligenti, a coloro che sanno pensare e calcolare. Non è a loro che Dio ha deciso di rivelare i suoi segreti.

Ma non è forse stato Dio a darci la testa, la capacità di pensare, di rappresentarci le cose, di immaginarle, come mezzo per entrare in contatto con gli altri? Sì, è vero, queste facoltà ci sono state date da Dio. Sono buone. Sono indispensabili. Noi non le disprezziamo. Non le sottovalutiamo. Ma dobbiamo anche saperne vedere i limiti.

Allorché penso a un problema ‑diciamo più precisamente a una persona molto vicina ‑ e la penso con la testa e non col cuore, la tengo distante da me. La afferro, la manipolo, in modo da poterla analizzare a piacimento, senza compromettermi con lei.

In fondo in fondo, non assumo impegni, mantengo le distanze, conservo la mia sicurezza per rapporto a questa persona. Faccio tutto ciò che posso per conoscerla, ma senza lasciarmi coinvolgere o contaminare dal dinamismo che può promanare dal cuore di questa persona. Voglio rimanere libero nei suoi confronti. In taluni casi questo modo d’agire è forse buono. Se, però, voglio amare, non è certo questa la strada da seguire.

***

Gesù continua il suo insegnamento: «Tutto mi è stato affidato dal Padre mio e nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27).

«Tutto mi è stato affidato dal Padre». Ciò significa che tra Padre e Figlio sono state abolite tutte le distanze. Nessuno dei due ha cercato di conservare una sicurezza in rapporto all’altro. Hanno accettato di coinvolgersi reciprocamente.

In tal modo possono conoscersi l’un l’altro di quella conoscenza d’amore che è presentata come un mistero cui possono partecipare solo gli iniziati: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio». Nessuno conosce, perché nessuno apre il suo cuore.

Se vogliamo conoscere il Padre, bisogna accettare di ricevere questa conoscenza del Figlio, nella misura in cui egli vede che il nostro cuore è pronto ad accoglierlo.

Per conoscere veramente Dio, bisogna quindi che io rinunci alle mie sicurezze. Devo eliminare le distanze che il pensiero e ogni sorta di rappresentazione mi permettevano di conservare in rapporto a lui. Devo riconoscere di essere vulnerabile.

Questa vulnerabilità che nascondevo così bene, devo accettarla alla luce del sole, viverla, ossia lasciare che le reazioni vere del mio cuore si esprimano liberamente. Solo così facendo potrò entrare in relazione con il Padre e il Figlio... e tutti gli uomini miei fratelli.

Questo significa, nella realtà concreta, che devo accettare di pormi a livello del cuore, devo dargli il diritto di esistere, di manifestarsi, di esprimersi nel modo che gli è proprio, cioè attraverso sentimenti profondi: fiducia, gioia, entusiasmo, ma ugualmente paura, talvolta angoscia... collera.

Questo non significa vivere a livello della sensibilità superficiale; significa, al contrario, accettare che si sviluppino in noi quei movimenti profondi che ci portano a incontrare l’altro nella verità. Ecco che cosa significa essere «piccolo piccolo»: è colui che si esprime in tutta spontaneità e si lascia prendere dall’amore di colui che gli è davanti. Come ci riesce difficile avere il coraggio di essere piccoli piccoli!

***

Queste riflessioni si situano sia sulla linea del Vangelo che su quella di un processo psicologico normale. Evidentemente i due livelli sono distinti, ma si completano e si compenetrano. Dobbiamo arrivare a cogliere tutto attraverso lo sguardo d’amore che Gesù ha sulle creature e perfino sulle Persone divine.

Ecco che cosa io chiamo «vedere col cuore»: accettare che il Figlio mi riveli il Padre su quel solo piano dove io sono capace di accogliere questa rivelazione, ossia sul piano in cui, secondo il mio essere umano, c’è in me una immagine della relazione d’intimità che esiste tra il Padre e il Figlio: nel mio cuore.



La purificazione del cuore,
purificazione di tutto l’essere
attraverso il cuore

Non è necessario avere una lunga esperienza dell’esistenza umana e più ancora della vita spirituale per sapere che siamo prigionieri di un mondo quasi sconfinato di disordini: peccati, squilibri affettivi, ferite non cicatrizzate, abitudini cattive... Tutto questo costituisce impurità per il nostro cuore.

Poco fa dicevamo che il linguaggio del nostro cuore si situa al livello delle emozioni. Tutti i disordini che ho menzionato sfociano in emozioni sregolate; si esprimono quasi a nostra insaputa; ci comandano; ci dilaniano; chiudono la porta a Dio; ci legano a una specie di automatismo del male. E tutto questo viene dal nostro cuore! «Ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore ed è questo che inquina l’uomo. Dal cuore infatti procedono cattivi pensieri, omicidi... queste sono le cose che inquinano l’uomo» (Mt 15,18‑20). Se voglio liberare il mio essere dall’immondizia, devo per prima cosa purificare il mio cuore.

***

Per far fronte a questo bisogno urgente di rettifica, si fa ricorso normalmente a quella che si può chiamare l’ascesi classica. E’ una tecnica sperimentata, messa a punto da lunghe generazioni di monaci, di cristiani, di uomini di buona volontà, decisi a liberarsi dalla schiavitù di cui sono prigionieri.

E’ un impegno che fa ricorso a tutte le risorse della nostra volontà, della nostra energia e della nostra perseveranza, alla luce della fede e dell’amore. Questa ascesi ha i suoi meriti e non bisogna mai smettere di ricorrervi. Ma essa ha anche i suoi limiti.

In particolare, per quanto concerne l’autentica purificazione del cuore, bisogna andare al di là delle tecniche umane. Rileggiamo a questo proposito gli inviti di san Bruno al suo amico Rodolfo:

«Che fare allora, mio caro? Che fare se non credere ai consigli divini, credere alla Verità che non può sbagliarsi? Lei dà questo consiglio a tutti: "Venite a me voi tutti che siete stanchi e affaticati e io vi ristorerò" (Mt 11,28). Non è una pena spaventosa e inutile l’essere tormentati dai desideri, di patire continuamente per affanni e angosce, paura e dolore provocati da questi desideri? Quale fardello è più opprimente di quello che col suo peso abbassa lo spirito dalla posizione della sua sublime dignità verso i bassifondi, in pura ingiustizia?» (A Rodolfo 9).

Dunque la prima forma in assoluto di purificazione è rivolgersi a Gesù, andare da lui per ricevere da lui il conforto. Lui ci rivolge questo invito subito dopo averci domandato di rinunciare a essere sapienti e intelligenti, per diventare piccoli piccoli. Entrare nella via del cuore è riconoscere che la sola purezza vera è un dono di Gesù.

«Prendete il mio giogo sopra di voi e venite dietro di me, poiché io sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le vostre anime» (Mt 11,29).

La purificazione fondamentale si realizza a partire da quando tutte le nostre sozzure, i disordini che ci affliggono si incontrano con Gesù. Non è un compito più facile di quello dell’ascesi classica, ma è più efficace, perché ci obbliga a stabilirci nella verità, la verità di noi stessi, per cui siamo costretti ad aprire gli occhi sulla realtà del nostro peccato; verità su Gesù, che è veramente il Salvatore delle nostre anime non soltanto in modo generale e distante, ma a livello di un contatto immediato con ognuna delle sporcizie da cui siamo afflitti.

Bisogna dunque che io impari ad offrirgli, che impari ad affidargli senza riprendermela più, ogni impurità del mio cuore man mano che essa viene alla luce sia nel gioco delle circostanze, sia per un moto profondo del mio cuore che finalmente vuole ritrovare la sua libertà.

***

Ogni volta che constato in me uno di quei legami che mi paralizzano, la cosa più importante non è di dichiarare guerra a questa schiavitù, poiché, nella maggior parte dei casi, arriverei soltanto a tagliare i rami, senza raggiungere le radici. La cosa più importante è di mettere a nudo le radici, di farle venire alla luce, per quanto brutte, per quanto disgustose siano a vedersi.

Si tratta precisamente di assumerle nella loro realtà e di poterle offrire al Salvatore con un gesto libero e cosciente. In tale prospettiva, l’invocazione classica «Gesù, figlio del Dio vivo, abbi pietà di me peccatore» non corre il rischio di essere una frase fatta. E’ la constatazione, rinnovata senza posa, che sta per avvenire un nuovo incontro tra il cuore purificante di Gesù e il mio cuore tutto macchiato.

E’ evidente che c’è in questo procedimento un elemento di pura psicologia umana, ma questo che cosa ha di sconvolgente? L’opera della grazia non si modella forse sulle strutture della natura? Nel nostro caso, questa diviene il supporto della Redenzione che viene a operare nel mio cuore la trasformazione, la cicatrizzazione delle ferite mediante l’incontro personale col Cristo risorto.

Progressivamente ci si abitua così a ritornare a lui senza posa, movendo specialmente da ciò che in noi è oscuro, tenebroso, inquietante. E’ una disposizione del cuore che all’inizio fa paura.

Ci hanno insegnato per troppo tempo che al Signore non si possono offrire che cose buone, cose belle. Tutto quello che non è atto di virtù non gli può essere offerto. Ma dir questo non è andar in senso contrario alla verità del Vangelo? Gesù stesso afferma che egli non è venuto per i sani, ma per i malati. Bisogna, pertanto, senza falsi pudori, imparare ad essere di fronte al medico celeste come autentici malati, che riconoscono lealmente ciò che in loro è falso, menzognero, contrario a Dio. Lui solo ci può guarire.



Il mio corpo,
luogo di incontro col Verbo
e tempio dello Spirito

Spesso ci si limita a considerare la «preghiera del cuore» come una espressione simbolica. Parlare del cuore sarebbe un modo immaginifico di evocare una realtà interiore, tutta spirituale.

Ma non è esatto. Tutti i moti del cuore, supporto alla nostra relazione con il Padre, sono moti legati al nostro essere sensibile, materiale. L’esperienza ci insegna, talvolta anche con rischio per la salute, che le emozioni veramente profonde toccano anche il nostro cuore fisico.

E’ pertanto impossibile entrare nella preghiera del cuore se non accettiamo di vivere in maniera cosciente e decisa a livello del nostro corpo.

Dio ci ha fatti così. Il racconto della Genesi ci mostra che Yahvè ha modellato l’uomo a partire dal fango della terra e afferma con grande sicurezza che questo essere materiale è veramente a sua immagine e somiglianza.

Il nostro corpo non è dunque un ostacolo alla nostra relazione con Dio. Al contrario, esso è l’opera stessa di Dio che ha costituito proprio noi come figli, chiamati a ricevere lui in eredità.

In tale prospettiva ci colloca anche tutta l’economia dell’incarnazione del Figlio di Dio. La Chiesa dei primi secoli si è battuta in modo accanito per difendere questa realtà ossia che Gesù è veramente un uomo. Nella carne lui è nato, nella carne è vissuto, ci ha istruito, ha sofferto, è morto e risuscitato.

Sono le opere umane del Verbo di Dio a darci la vita giorno dopo. La parola di Dio viene a noi con espressioni umane. Il nostro peccato non viene purificato in maniera simbolica, ma proprio con l’effusione del sangue che sgorga dal corpo di Gesù. Lui è veramente morto e resuscitato nella carne. Ed è proprio questa resurrezione materiale che salva sia le nostre anime che i nostri corpi.

E da ultimo, lo Spirito ci è stato donato soltanto a partire dalla resurrezione corporale del Figlio. E’ lui, il figlio di Maria, che ci manda lo Spirito dal seno del Padre. Non è il Verbo increato, ma il Verbo incarnato, dopo che ha condiviso la nostra esistenza ed è divenuto uno di noi.

***

Oni giorno noi facciamo esperienza di questa incarnazione attraverso i sacramenti, la liturgia, la vita di comunità, l’appartenenza al Corpo della Chiesa. Tutto questo è il fondamento diretto della realtà corporale di Cristo e la sua presenza nelle nostre vite.

Sappiamo accogliere Gesù così come egli viene a noi, cioè rivolgendosi a noi nel nostro corpo. Non affrettiamoci a sbarazzarci troppo presto di questo intermediario che spesso tendiamo a considerare un po’ come un’impurità nelle nostre relazioni con Dio. Non è vero, esso non è un’impurità, anzi è il luogo stesso del nostro incontro col nostro Abbà.

Ci sarebbe impossibile immaginare la vita di comunità se i nostri fratelli fossero degli esseri disincarnati, dei puri spiriti, da raggiungersi al di là degli involucri carnali. Allo stesso modo sarebbe rifiutare la realtà dell’amore di Dio il voler fare astrazione dalla realtà carnale, materiale, greve, del Figlio che viene a noi.

L’Eucaristia che noi celebriamo ogni giorno è veramente la celebrazione di un atto che ha comportato alcune trasformazioni profonde nel suo corpo e nel suo sangue, non perché li ha messi tra parentesi o superati, ma perché ha dato loro pieno senso; costituiscono una realtà materiale che è il Figlio di Dio.

Allo stesso modo il nostro corpo, con tutti i suoi gravami, i suoi limiti, le sue costrizioni è la nostra realtà, quello che siamo noi. E’ proprio il corpo mio che entra in contatto con quella realtà di cui Gesù ha detto: «Questo è il mio corpo».

E’ l’incontro di queste due realtà corporali che stabilisce il contatto di vita tra Dio e me. «Se non mangerete il mio corpo e non berrete il mio sangue, non avrete la vita in voi... Come il Padre che è vivo mi ha mandato e io vivo per il Padre, ugualmente chi mangia di me vive per me» (Gv 6,57).

***

La conseguenza di questo stato di cose è che non posso pregare senza pregare nel mio corpo. Quando mi rivolgo a Dio, non posso fare astrazione da questa mia realtà incarnata. Allora, quando debbo rivolgermi a Dio, certi gesti imposti e certe cogenti condizioni materiali non sono solo questione di disciplina religiosa. Ciò corrisponde all’unica realtà: Dio mi ama così come mi ha fatto. Perché voler essere più spirituale di lui?

Devo imparare, dunque, a vivere a livello del mio corpo e di tutte le costrizioni che questo mi impone. Cibo, sonno, svago, malattia, la limitatezza delle mie forze... tutto questo non costituisce ostacolo tra me e Dio; al contrario, costituisce la trama del tessuto che stabilisce una ininterrotta continuità tra il più intimo della realtà divina e il più concreto della mia esistenza quotidiana.

Chi di noi non ha fatto l’esperienza, talvolta terribilmente dolorosa, di sentirsi limitato, quasi prigioniero a causa, per esempio, di difficoltà di salute?

Se il nostro cuore è sincero non possiamo che dire questo: è Dio che viene a noi attraverso queste costrizioni dolorose. Esse sono proprio il punto di intersezione dell’amore di Dio nella nostra vita.

Il nostro cuore accoglie Dio proporzionatamente a quanto è attento a questa realtà che noi vorremmo poter considerare inferiore alla nostra vocazione spirituale. Facciamo attenzione a questa menzogna permanente che il Principe della menzogna cerca di istillare così nei nostri cuori. Non giochiamo ai puri spiriti, sappiamo essere molto di più, noi siamo i figli di Dio.




Noi parliamo di preghiera. Ma sappiamo poi pregare? E specialmente so in che cosa consiste la vera preghiera? Onestamente devo confessare che io non lo so. Sento in me un richiamo profondo in una certa direzione, ma sono al buio.

Fortunatamente «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, poiché non sappiamo che cosa chiedere per pregare come si deve; ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti ineffabili e Colui che scruta i cuori sa quale è il desiderio dello Spirito e che la sua intercessione per i santi corrisponde ai piani di Dio» (Rm 8,26‑27).

La preghiera è nel mio cuore. Sgorga dal mio cuore. Tuttavia non è opera soltanto mia. Lo Spirito mi è stato donato; è stato diffuso nel mio cuore ed è lui che prega in me. Lo Spirito viene dal cuore di Dio che desidera accendere nel mio cuore la stessa fiamma che brucia nel suo.

Conosciamo tutti i passi di san Paolo che ci parlano di questo; ma non tendiamo forse a considerarli in maniera puramente teorica o, per esprimerci in modo più elegante, a vederli come verità di fede, cioè come cose di cui si parla con convinzione, ma che si vivono solo nella più profonda oscurità?

Questa presenza dello Spirito nel mio cuore parrebbe una cosa che si situi unicamente a livello di Dio e con essa possa eventualmente comunicare solo attraverso formule intellettuali. La realtà in se stessa, invece, sfuggirebbe totalmente alla mia esperienza. Ma è proprio questo che san Paolo vuol dire?

In reazione agli eccessi di questo atteggiamento, sarà forse allora da esigere che ogni esperienza cristiana autentica sia un’esperienza dello Spirito, alla maniera degli Apostoli quando hanno ricevuto le lingue di fuoco la mattina di Pentecoste? Questo non è mai stato l’insegnamento della Chiesa. Ma tra i due estremi si trova un atteggiamento vero, alla portata di ogni cristiano, secondo cui la presenza dello Spirito nella nostra vita è una realtà che ha un influsso diretto sulla nostra maniera di essere, sulle nostre relazioni d’amore coi fratelli, sulla nostra preghiera.
***
Se riprendiamo le diverse tappe di cui abbiamo parlato, constatiamo una progressione. Rinunciare a considerare il centro della nostra attività di preghiera a livello di testa, di rappresentazioni, di sistemi di pensiero. Entrare nel nostro cuore. Scoprirvi tutto un mondo disordinato di emozioni e di ferite che promanano da esso e che hanno bisogno di essere purificate. Abbiamo scoperto che c’è una possibilità effettiva di integrare tutte queste ferite del nostro cuore nel movimento di redenzione, facendole venire a galla, in modo da offrirle coscientemente all’azione redentrice di Gesù.

Così, senza dirlo, siamo giunti a parlare di un moto dello Spirito in noi. Se possiamo fare quello di cui dicevo è perché lo Spirito del Signore è all’opera dentro di noi e ci permette di discernere, nel reticolo complesso delle nostre emozioni, ciò che possiamo offrire, con pazienza e perseveranza, alla grazia di purificazione e di resurrezione del Salvatore.

Tutto ciò di cui abbiamo parlato è già un’opera dello Spirito. Continuiamo allora sulla stessa linea. Al di là di tutti questi moti disordinati del cuore, specialmente da quando l’opera di Gesù comincia a ristabilire l’ordine, riconosciamo dei moti meno sregolati, che progressivamente giungono perfino ad essere ben ordinati; così, senza che noi ci accorgiamo, il fondo del nostro cuore impara a mettersi in moto spontaneamente verso il Signore.

E’ soltanto dopo un po’, guardando a ciò che ci è capitato, che constatiamo che, di fatto, lo Spirito del Signore era all’opera discretamente, silenziosamente, in fondo al nostro cuore. Man mano che la pace si è stabilita nelle profondità, si mette in azione un certo dinamismo col quale dobbiamo imparare a collaborare.

E’ così che impariamo ad assumere tutti i movimenti del nostro cuore, quelli buoni, quelli meno buoni e anche quelli cattivi per orientarli verso Dio. Gli uni vengono direttamente dal Padre e ritornano a 1ui. Gli altri hanno bisogno di essere trasformati e assunti dalla morte e resurrezione di Gesù. Tutti richiedono di essere integrati coscientemente nel dinamismo dello Spirito diffuso nei nostri cuori.

Si tratta di imparare ad essere vigili ai moti del cuore per unirli volontariamente e coscientemente all’azione dello Spirito Santo che è in noi.

Tutto ciò non implica alcuna grazia mistica. Si tratta solamente di prendere coscienza, con dolcezza e con semplicità, che il nostro cuore è vivo e che questa vita noi possiamo offrirla allo Spirito Santo perché egli la coinvolga nel suo movimento verso il Padre.

***

San Paolo dice che lo Spirito prega in noi con gemiti ineffabili. Quest’ultima parola merita che vi facciamo attenzione. L’azione normale dello Spirito non è darci idee chiare, né darci lumi, né darci alcunché. L’azione dello Spirito è portarci verso il Padre.

«Tutti quelli che lo Spirito di Dio anima sono figli di Dio. Così voi non avete ricevuto uno spirito di schiavitù per ricadere nella paura; voi avete ricevuto uno Spirito di figli adottivi che ci fa esclamare: Abbà! Padre! Lo Spirito stesso si unisce al nostro spirito per attestare che siamo figli di Dio» (Rm 8,14-15).
Lo Spirito è un testimone; è un dinamismo che ci trascina. Soprattutto non dobbiamo scrutarlo, identificarlo, afferrarlo per controllarlo. Questo sarebbe cacciarlo dal nostro cuore; sarebbe estinguerlo. Lasciamogli tutta la sua libertà di pregare in noi, col suo modo velato, nascosto e misterioso, che noi valutiamo poi dai frutti. Nella misura con cui constateremo che impariamo a pregare; che, senza sapere perché, siamo diventati capaci di domandare a Dio e di essere esauditi; tutto questo è un segno che, a dispetto di tutte le nostre evidenti debolezze, lo Spirito prega in noi.


La mia debolezza, luogo di scoperta e di incontro
con la tenerezza del Padre

Riprendiamo ora certi orientamenti fondamentali di ciò che abbiamo detto. Riprendiamoli e unifichiamoli, poiché rappresentano un atteggiamento fondamentale della preghiera del cuore.

Il riflesso spontaneo di ogni essere umano è d’aver paura delle sue debolezze. A partire dal momento in cui constatiamo che su un punto o su un altro non possiamo contare sulle nostre forze, tende a stabilirsi in noi un’inquietudine che rischia talvolta di divenire angoscia. Invece tutto quello che abbiamo detto fin qui ci conduce a lasciar perdere le nostre sicurezze personali e a far apparire ciò che abbiamo chiamato la nostra vulnerabilità, i nostri disordini nascosti, i limiti della nostra condizione di creatura, ecc… Ogni volta ci siamo detti: non c’è che una soluzione, ossia riconoscere la realtà di quello che siamo e darla al Signore sì che se ne faccia carico.

Ricordiamoci l’episodio della tempesta sedata. Gli Apostoli sono spaventati dal cattivo tempo che scuote la loro barca e vanno a svegliare Gesù. Lui si volge verso di loro e domanda, stupito: «Perché avete paura, uomini di poca fede?» (Mt 8,26); poi, con un gesto, placa le onde.

Perché allora aver paura delle mie debolezze? Esse ci sono. Per tanto tempo ho rifiutato di guardarle in faccia. Un poco alla volta mi sono messo ad ammansirle. Ora sono proprio costretto ad ammettere che fanno parte di me. Non sono un qualcosa di esterno di cui un giorno potrei arrivare a sbarazzarmi definitivamente.

Ben di più: se fossi incline a dimenticarle il Padre si incaricherebbe presto di ricordarmele. Permetterebbe quella tal colpa davanti alla quale non potrei più negare la mia realtà di peccatore. Farebbe che la salute mi giochi dei cattivi scherzi per cui mi dovrei riconoscere vinto e consegnarmi senza resistenze all’amore del Padre. Mi farebbe toccare con mano, al di là di ogni dubbio, quanto le mie facoltà siano limitate.

Ma la cosa nuova sta nel fatto che queste debolezze, invece di rappresentare un pericolo, costituiscono per me una possibilità di entrare in contatto con Dio.

Ed è questo il motivo per cui un po’ alla volta devo lasciarmi ammansire da loro. Non più considerarle come il lato inquietante della mia personalità, ma come una dimensione voluta o permessa dal Padre; non la peggiore delle ipotesi, ma una struttura fondamentale dell’ordine della vita divina così come mi è stata data.

E quando mi dovessi trovare improvvisamente davanti a una fragilità che non avevo ancora scoperto in me, il mio primo riflesso non dovrà più essere di scoraggiarmi, ma di domandarmi in qual punto vi è nascosto il Padre.

***

Come allora non porsi una domanda? Questa trasformazione della debolezza, che ha tutte le apparenze di uno scacco, in una vittoria dell’amore è una specie di ricupero con cui Dio trasforma il male in bene o, al contrario, non siamo di fronte a una dimensione fondamentale dell’ordine divino?

Ci sarebbe molto da dire su questo argomento. Accontentiamoci di constatare semplicemente che, anche nell’ordine naturale, ogni amore autentico è una vittoria della debolezza.

Amare non è dominare, possedere, imporsi a colui che si ama. Amare vuol dire accogliere senza premunirsi contro l’altro che viene incontro; a nostra volta abbiamo la certezza di essere pienamente accolti dal partner, senza essere giudicati, condannati o confrontati.

Non ci sono più prove di forza tra due esseri che si amano. C’è una specie di intesa interiore reciproca grazie alla quale ognuno sa che non ha da temere alcun male da parte dell’altro.

Questa esperienza, ancorché imperfetta, è già ben persuasiva. Ma non è che un riflesso della realtà divina. A partire dal momento in cui cominciamo a credere veramente nel nostro cuore alla tenerezza infinita del Padre, ci sentiamo in qualche modo obbligati ad accondiscendere sempre più a una accettazione positiva e gioiosa di un non-avere, di un non-sapere, di un non-potere. E non si tratta di alcuna malsana forma di umiliazione. Stiamo semplicemente entrando nel mondo dell’amore e della fiducia.

***

Così, senza quasi rendercene conto, entriamo in comunione con la vita divina. Le relazioni del Padre e del Figlio nello Spirito, a un livello che sorpassa del tutto la nostra possibilità di capire, sono una forma perfetta di questa debolezza pienamente assunta nella comunione.

In un modo più vicino a noi, questa tenerezza intima del tre volte Santo si manifesta nella relazione del Figlio incarnato in rapporto a suo Padre. Come non essere colpiti dalla serenità e dall’infinita sicurezza con cui Gesù dichiara tranquillamente di non aver niente di proprio, di non poter fare nulla da solo, se non quello che vede fare dal Padre? Quale uomo accetterebbe una simile spogliazione?

Ma non è proprio in questa direzione che siamo obbligati ad impegnarci se vogliamo realmente vivere nelle profondità del nostro cuore, quale il Padre l’ha creato e che trasfigura con la morte e la resurrezione di suo Figlio?

Maria ci orienta nella stessa direzione. Il Magnificat è in un unico slancio un canto di trionfo e il riconoscimento di una spogliazione totale. Le due cose vanno di pari passo. Fin dall’inizio lei ha riconosciuto e accettato la sua totale debolezza; si trova così a essere in grado di accogliere il Figlio che il Padre le dona. Diviene Madre di Dio perché è lei la più vicina alla povertà di Dio.





Se si segue il cammino di cui parlo, è normale che progressivamente l’attività intellettuale si plachi durante il tempo della preghiera; e, man mano che le emozioni del cuore sono canalizzate, anche ogni sorta di distrazioni e di divagazione perde la sua ragion d’essere. Il che significa che la preghiera del cuore, con un moto quasi spontaneo, ci orienta verso il silenzio.

Certi giorni questa esperienza è forte e avviene quasi necessariamente che ci si trovi esposti, se così si può dire, alla «tentazione del silenzio».

Il silenzio è un bene che esercita una seduzione su tutti i cuori non appena ne hanno fatto una certa esperienza sapida. Ma ci sono molte forme di silenzio. Non tutte sono buone. La maggior parte di esse è una deformazione piuttosto che un’autentica preghiera di silenzio.

La prima tentazione è di rendere il silenzio un agire, anche se si è intimamente persuasi del contrario. Col pretesto che l’intelligenza non lavora e che il cuore sembra in riposo ci si immagina d’aver raggiunto il vero silenzio dell’essere. In realtà questo silenzio, anche se ha una indiscutibile autenticità, è il risultato di uno sforzo della volontà e questo, alla fin fine, è il più sottile, ma anche il più pernicioso degli agire. Invece di avere i1 nostro cuore in stato di disponibilità, esso ci tiene in uno stato in cui ci imponiamo un atteggiamento artificiale e dove in fin dei conti, noi non offriamo accoglienza al Signore perché ci basiamo sulle nostre forze. Nel caso di persone con una forte volontà questo può rappresentare un più grande ostacolo a una vera disponibilità al Signore. Materialmente parlando, il silenzio è grande, ma è un silenzio ripiegato su se stesso, appoggiato su se stesso.

Un’altra tentazione consiste nel voler fare del silenzio una meta. Ci si immagina che la ragione d’essere della preghiera del cuore, e anche di ogni contemplazione, sia il silenzio. Ci si ferma a una realtà materiale. Non ci si ferma alla persona del Padre o a quella del Figlio o dello Spirito.

Quel che conta è il mio stato e non la relazione reale d’amore e di disponibilità che ho verso Dio. Non è più una preghiera, è una contemplazione di me stesso.

Una tentazione analoga alla precedente consiste nel fare del silenzio una realtà in se stessa. Il silenzio basta. Quando i rumori dei sensi, dell’intelletto, dell’immaginazione sono placati, si stabilisce in noi una autentica soddisfazione... e questo basta. Non si cerca nulla di più. C’è un rifiuto a cercare altro. Tutto ciò che di nuovo introducesse un’idea qualunque, anche sul Signore, anche se venisse da lui, pare un ostacolo. La sola realtà divina in quel momento è il silenzio. Là non c’è preghiera. Non c’è altra cosa che la costruzione di un idolo che si chiama silenzio.

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Ciò non toglie che un silenzio autentico sia una realtà molto importante, alla quale bisogna attribuire grande valore. Ma se si vuole entrare in un silenzio autentico, bisogna dal profondo del cuore rinunciare al silenzio. Non bisogna avvilirlo, sottovalutarlo, rinunciare a cercarlo; ma evitiamo di farne una meta.

Soprattutto bisogna evitare di credere che il vero silenzio sia il risultato della mia intraprendenza. Non devo costruire il silenzio di sana pianta, come una cosa che si fabbrica. Ci si immagina troppo spesso che il silenzio sia unicamente stabilire la pace nelle facoltà intellettive, di immaginazione e di sensibilità. Questo è un aspetto del silenzio, ma non è tutto il silenzio.

Ci vuole ancora che il nostro cuore profondo, in quanto si identifica con la volontà, sia lui stesso in silenzio, che sia placato ogni desiderio all’infuori di quello di fare la volontà del Padre. Ossia che la mia volontà, invece di essere tesa per imporsi al resto del mio essere umano, sia essa stessa pura disponibilità, ascolto e accoglienza.

Inizia allora ad esistere la possibilità di entrare in un autentico silenzio di tutto l’essere di fronte a Dio, un silenzio nato dalla conformità reale del mio essere profondo con il Padre di cui è l’immagine e la somiglianza.

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Dio solo basta; tutto il resto è nulla. Il silenzio autentico è la manifestazione di questa realtà fondamentale di ogni preghiera. C’è veramente silenzio nel cuore solo allorquando ne sono sparite tutte le impurità che si opponevano al regno del Padre.

Il silenzio vero si stabilisce solo in un cuore puro, in un cuore divenuto simile al cuore di Dio. E’ questa la ragione per cui un cuore puro può conservare un silenzio completo anche quando è immerso in ogni sorta di attività, perché non c’è più dissonanza tra lui e Dio. Anche se la sua intelligenza e la sua sensibilità sono attive per essere conformi alla volontà di Dio, il silenzio autentico continua a regnare in questo cuore.
«Beati i puri di cuore perché vedranno Dio».